Nel lessico italiano ci sono alcune coppie di termini che sembrano sovrapponibili, ma che in realtà custodiscono sfumature preziose. Tra questi, “urgente” e “impellente” meritano attenzione: due aggettivi che spesso si usano come sinonimi, ma che portano con sé origini diverse e un diverso peso semantico. Comprendere appieno la loro differenza significa affinare la sensibilità linguistica e scegliere con maggiore precisione la parola giusta al momento giusto.
“Urgente” deriva dal latino urgere, che significa “premere, incalzare, stringere da vicino”. L’idea è quella di una forza che spinge nel tempo: ciò che è urgente non può essere rimandato, perché incombe immediatamente e reclama una risposta rapida. L’urgenza è dunque legata alla dimensione temporale: un’urgenza medica, un’urgenza burocratica, un’urgenza familiare sono tutte situazioni che richiedono intervento immediato, pena conseguenze negative. Dire “è urgente consegnare il documento” significa che il tempo stringe e non ammette dilazioni.
“Impellente”, dal latino impellere, “spingere contro, urtare, costringere”, ha una sfumatura diversa dal parente lessicale: non tanto il tempo che incalza, quanto la necessità che preme dall’interno o dall’esterno. Un bisogno impellente è un bisogno che non si può ignorare, perché la sua forza costringe ad agire. L’impellenza è dunque più vicina alla sfera della necessità inevitabile che non a quella della scadenza temporale. Dire “ho un bisogno impellente di chiarire” significa che la necessità di chiarimento è così forte da non poter essere elusa, indipendentemente dal tempo.
Alcuni esempi chiariscono la distinzione: una telefonata del medico può essere urgente, perché richiede risposta immediata; un desiderio di giustizia può essere impellente, perché nasce da una forza morale che non si può reprimere. Un compito scolastico da consegnare entro il giorno successivo è urgente; la sete dopo una lunga camminata è impellente. In questi casi c’è pressione, ma la natura della pressione cambia: il tempo che “incalza” e la necessità che “spinge”.
Nell’uso quotidiano i due termini si intrecciano e spesso si sovrappongono, ma la distinzione rimane utile. “Urgente” si impiega soprattutto in contesti pratici, amministrativi, professionali, dove la variabile temporale è decisiva. “Impellente” si presta meglio a contesti espressivi, morali, psicologici, dove la forza della necessità è protagonista. Saperli distinguere significa arricchire il proprio lessico e dare alle parole il giusto peso, evitando appiattimenti e rendendo più precisa la comunicazione.
In conclusione, “urgente” è ciò che non può aspettare, “impellente” è ciò che non si può evitare. Due sfumature che, se rispettate, restituiscono alla nostra amata lingua la sua capacità di nominare con esattezza le pressioni che ci muovono, nel tempo e nella necessità.
Urgente è ciò che non può aspettare, impellente è ciò che non si può evitare.
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Nasce il ‘trotterellista’: l’italiano che corre leggero
In italiano, il tema del “jogging” è sempre rimasto sospeso tra la necessità di precisione e la tentazione di ricorrere al forestierismo. Da un lato abbiamo il termine generico “corridore”, che abbraccia ogni forma di corsa, dall’agonistica alla più blanda; dall’altro la locuzione “chi fa jogging”, che risolve il problema con semplicità descrittiva ma senza la forza di un sostantivo autonomo. L’anglicismo “jogger”, ormai diffuso nel linguaggio sportivo e giornalistico, ha conquistato spazio proprio per questa mancanza: è breve, immediato, ma resta un corpo estraneo alla nostra lingua. I tentativi di sostituzione non hanno mai attecchito davvero: “corsista” suona ambiguo, “trotterellatore” o “trotterellatrice” hanno un tono buffo e letterario, più adatti a un racconto che a una consuetudine quotidiana.
Eppure la lingua vive di invenzioni, e ogni neologismo ben coniato può colmare un vuoto. È in questo spirito che nasce “trotterellista”: un termine agile, musicale, capace di evocare con immediatezza chi pratica il “jogging” senza ricorrere all’inglese. La radice “trotterellare” restituisce il senso del movimento leggero e ritmico, mentre il suffisso “-ista” conferisce dignità di ruolo, come avviene per “ciclista”, “pianista”, “escursionista”. Non più un semplice descrittore, ma un’identità linguistica: il "trotterellista" è colui che sceglie la corsa moderata come pratica abituale, che si riconosce in quel passo cadenzato e rilassato, né maratoneta né “sprinter” (si perdoni il barbarismo), ma amante della continuità e del benessere.
Il vantaggio di “trotterellista” è duplice: da un lato offre un’alternativa pienamente italiana al forestierismo “jogger”, dall’altro si inserisce con naturalezza nel sistema morfologico della nostra lingua, accanto a tanti altri termini che designano praticanti di attività. È un neologismo che non forza, ma accompagna: chi lo ascolta ne intuisce subito il significato, senza bisogno di spiegazioni. In un’epoca in cui la corsa è diventata simbolo di salute e stile di vita, dare un nome italiano a chi la pratica in forma moderata significa restituire alla nostra lingua la capacità di nominare il quotidiano.
Il "trotterellista", dunque, non è soltanto chi corre piano: è chi ha scelto di farlo con costanza, chi si riconosce in quel gesto semplice e regolare, chi trova nel trotto leggero un equilibrio tra corpo e mente. Un termine nuovo, ma già familiare, pronto a entrare nel lessico comune e a liberare il jogging dall’ombra dell’anglicismo.
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