C’è un momento, nella vita delle parole, in cui esse sembrano tendere la mano per trasformarsi: un aggettivo che si fa azione, un nome che diventa gesto. È in questo spazio di metamorfosi che si colloca la parasintesi, uno dei meccanismi più affascinanti della nostra lingua. Il termine, nato dal greco pará (“accanto, oltre”) e sýnthesis (“composizione”), racconta già la sua natura: una costruzione che nasce dall’incontro simultaneo di prefisso e suffisso, applicati a una radice nominale o aggettivale. Non basta aggiungere un prefisso, non basta innestare un suffisso: la parola prende vita solo quando i due elementi si fondono insieme, come due chiavi che aprono la stessa porta.
Così invecchiare non è semplicemente “vecchiare” né “invecchio”: è il cominciamento di diventare vecchio. Ammutolire non è “mutolire” né “amutolo”: è il silenzio che cala improvviso. Spianare non è “pianare” né “spiano”: è rendere piano, livellare. E ancora ammassare, da massa, significa raccogliere in un insieme compatto; ingabbiare, da gabbia, è chiudere in uno spazio; abbracciare, da braccio, è circondare con le braccia; atterrare, da terra, è scendere o far cadere a terra; sotterrare, sempre da terra, è nascondere sotto la superficie. Ogni volta la parola nasce intera, indivisibile, e porta con sé un significato preciso, spesso incoativo o trasformativo.
Il lessico italiano, grazie a questo procedimento, si arricchisce di verbi che descrivono con immediatezza processi di cambiamento e azioni concrete: ingiallire da giallo, imbruttire da brutto, arricchire da ricco, impoverire da povero, allungare da lungo, accorciare da corto, imbottigliare da bottiglia, intonacare da intonaco, sbiadire da biado. Tutti esempi che mostrano la vitalità di un meccanismo capace di trasformare la staticità di un nome o di un aggettivo in dinamismo verbale.
La parasintesi, dunque, non è una curiosità grammaticale, ma un vero e proprio strumento di creazione: un ponte che permette alle parole di attraversare categorie diverse e di reinventarsi. È grazie a questa che l’italiano può dire “rendere bianco” con imbiancare, “mettere in gabbia” con ingabbiare, “diventare vecchio” con invecchiare, “scendere a terra” con atterrare. La sua forza sta nella natura bloccata e indivisibile: solo la combinazione simultanea di prefisso e suffisso dà vita a parole nuove, precise e indispensabili.
E se la lingua è un organismo vivo, la parasintesi è il suo respiro creativo: ogni verbo parasintetico è un passo in più verso la trasformazione, un segno che il lessico non si limita a nominare il mondo, ma lo reinventa. In fondo, la parasintesi ci insegna che le parole, come gli uomini, non nascono mai da sole: hanno bisogno di un incontro per diventare davvero sé stesse.
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Lusingare o confidare?
Il sintagma verbale lusingare, che significa allettare, attirare e simili, viene spesso adoperato, impropriamente, nell’accezione di sperare, confidare, auspicare, augurare, soprattutto in ambito commerciale: gentile signora ci lusinghiamo di averla presto come cliente. In buona lingua italiana è da evitare. Si dirà: speriamo, confidiamo di averla presto come cliente.
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