venerdì 31 maggio 2024

Considerazioni e suggerimenti

Diffidare. Due parole su un verbo adoperato quasi sempre in modo errato: diffidare. Questo verbo, dunque, è "geneticamente" intransitivo, il suo ausiliare è solo avere e si costruisce con la preposizione "di": diffidate sempre "di" coloro che vi fanno troppe promesse. Il significato proprio è "sospettare", "non fidarsi". Adoperato transitivamente significa "intimare di fare o non fare una cosa" e si fa seguire dalla preposizione "a": il preside ha diffidato (cioè: ha intimato) gli alunni a non fumare nei corridoi della scuola; la polizia diffidò (cioè: intimò) il malvivente a presentarsi in commissariato una volta la settimana. Alcuni vocabolari consentono anche l'uso della preposizione articolata "dal", ma in buona lingua italiana è un... uso errato.

Lo sputapepe. Abbiamo notato che non tutti i vocabolari dell'uso attestano questo termine, che si riferisce a una persona dalla parlantina facile, arguta ma petulante. I dizionari che lo registrano lo danno come sostantivo invariabile. No, il vocabolo, riferito al maschile, si pluralizza normalmente: uno sputapepe, due sputapepi. Segue, infatti, la regola della formazione del plurale dei nomi composti. Tale regola stabilisce che un sostantivo composto di una voce verbale (sputa) e un sostantivo maschile singolare (pepe) nella forma plurale cambia regolarmente. Resta invariato solo se si riferisce a un femminile: Giovanna è una sputapepe; Luisa e Anna sono delle emerite sputapepe.

Ultra. Questo termine viene adoperato nel linguaggio politico e sportivo per indicare gli estremisti di un partito o di una squadra. Consigliamo di scriverlo, in buona lingua italiana, senza accento sulla "a" e senza la "s" finale, anche se in quest'ultima forma è invalso nell'uso. Il vocabolo deriva dall'avverbio latino "ultra" (oltre, al di là, di piú) trasportato in italiano come sostantivo maschile invariabile.

Vistoso. Questo aggettivo significa "appariscente", "che dà nell'occhio"; è improprio, a nostro modesto avviso, adoperarlo nell'accezione di "notevole", "cospicuo", "grande" e simili. Non, quindi, "una vistosa somma", ma, correttamente, una cospicua, notevole somma.

Tinnire. Ci piace segnalare un verbo "sconosciuto" perché di uso prettamente letterario che significa "squillare", "risonare" e simili, di origine onomatopeica. È intransitivo e della III coniugazione, nei tempi composti può prendere tanto l'ausiliare avere quanto l'ausiliare essere. In alcuni tempi si coniuga con la forma incoativa, vale a dire con l'inserimento dell'infisso "-isc-" tra il tema e la desinenza (tinnisco).

Decisamente e succedere. Due parole, due, sugli usi non appropriati di un avverbio e di un verbo: decisamente e succedere. Cominciamo con l'avverbio. Logica vorrebbe che l'avverbio suddetto si adoperasse esclusivamente nel significato di "con decisione". Alcuni, ritenendolo erroneamente sinonimo di "certamente", lo impiegano, per l'appunto, in modo inappropriato: quel libro è "decisamente" interessante; quella fanciulla è "decisamente" bella. E veniamo al verbo "succedere", che ha due significati principali: "subentrare", "sostituire", "prendere il posto di un altro" (morto il padre, il figlio successe alla direzione dell'azienda) e "accadere", "avvenire" (durante i mesi estivi succedono, purtroppo, molti incidenti stradali) e due forme per il passato remoto e il participio passato: successe e succedette; successo e succeduto. A nostro modo di vedere le due, o meglio, le quattro forme è preferibile non adoperarle indifferentemente. Useremo "succedette" e "succeduto" nel significato di "prendere il posto di un altro in un incarico o una carica" (Giovanni Paolo I succedette a Paolo VI) ; "successe" e "successo" nell'accezione di "accadere" e simili (non ricordo piú cosa successe negli anni della mia adolescenza). Pedanteria? Giudicate voi, amici amanti del bel parlare e del bello scrivere.


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La lingua “biforcuta” della stampa

Invasione dei vermocane nei mari di Sicilia, Puglia e Calabria: “Voracissimi e carnivori, pesca e turismo a rischio”

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Vermocane (o vermecane) si pluralizza mutando la desinenza del secondo elemento, come stabilisce la regola sulla formazione del plurale dei nomi composti di due sostantivi dello stesso genere. Correttamente, quindi: vermocani.

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Sopralluogo nel cantiere della periferia dimenticata dove 400 famiglie vivono senza fogne e acqua

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Prima o poi, gli operatori dell’informazione (i massinformisti) impareranno, speriamo, che quando si escludono due o più cose, la congiunzione correlativa a senza è , più raramente o. Correttamente, quindi: senza fogne né acqua.


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Solo ora abbiamo notato che, in seguito alle nostre ripetute segnalazioni, il Treccani ha “aggiornato” il lemma “-ale”. Come usa dire, meglio tardi che mai.

Emenderanno anche il lessema metaplasmo dove si legge che il verbo “ridere” appartiene alla III coniugazione?



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martedì 28 maggio 2024

Sgroi – 178 - La correttezza linguistica di papa Francesco



di Salvatore Claudio Sgroi


1. Lo “scandalo papale”

Lunedì 20 maggio, nell’aula del Sinodo nel corso dell’Assemblea a porte chiuse della CEI con i vescovi italiani venuti a Roma, durata un’ora e mezzo, papa Francesco, discutendo dell’ammissione dei seminaristi gay, avrebbe detto/ha detto:


Nei seminari c’è già troppa frociaggine”.


Un’espressione giudicata una “gaffe”, perché “l’italiano non è la sua lingua madre”; “quand’era ragazzo in famiglia parlavano più che altro il piemontese”. “Insomma era evidente che Francesco non fosse consapevole di quanto nella nostra lingua la parola sia greve e offensiva” (Gian Guido Vecchi, “Corriere Roma”). “Un errore, motivano i vescovi, fatto perché Bergoglio non conosce bene il significato di tutte le parole, del resto l’italiano non è la sua lingua” (Simona Sirianni, “Io donna”).


2. Papa Francesco italofono competente

Verrebbe piuttosto da dire che papa Francesco, pur italofono che lascia trasparire la sua argentinità soprattutto a livello fonologico, mostra a livello lessicale un’eccellente competenza, ovvero nel caso specifico mostra di conoscere bene il significato delle parole.

Come su specificato, il contesto in cui papa Francesco fa uso del termine frociaggine è sociolinguisticamente, diafasicamente, ineccepibile: si tratta infatti di “un’assemblea a porte chiuse”, non quindi in pubblico e con destinatari paritari: il vescovo di Roma con i vescovi di altre città, in un clima di grande informalità.

Si può anche ipotizzare che in quel contesto informale una diversa espressione come “Nei seminari c’è già troppa omosessualità”, sarebbe risultata stilisticamente una stonatura.

In spagnolo peraltro papa Francesco avrebbe potuto far ricorso a un lessema come marica (vulg.) ‘frocio’ e mariconería s.f.  “Vulg Cualidad de marica”, es. La homosexualidad no es la mariconería que ustedes condenan (Gran diccionario de uso del español actual, SGEL 2001).


2.1. Le scuse di papa Francesco

Una volta che il termine frociaggine si è diffuso fuori del contesto ristretto dell’Assemblea a porte chiuse, per danneggiare l'immagine del Papa, suscitando una bufera di polemiche, papa Francesco ha sentito il bisogno di scusarsi, attraverso il portavoce della Santa Sede Matteo Bruni, per l’uso di tale termine, lungi dal voler offendere gli omosessuali o dal manifestare una qualsiasi forma di omofobia.


3. Seminaristi omosessuali sì o no?

Al di là della scelta lessicale, il problema fondamentale per la Chiesa è se ammettere o no seminaristi gay. Dal momento che il sacerdote è legato al celibato e alla promessa di castità, è chiaro che il seminarista eterosessuale non può non attenersi a tale duplice vincolo. Analogamente, il seminarista omosessuale deve astenersi dal praticare la sua omosessualità. In entrambi i casi, quindi, i seminaristi devono tenere a freno le proprie tendenze, etero- od omosessuali che siano. La Chiesa non può perciò ammettere seminaristi o sacerdoti che praticano l’etero- o l’omosessualità. E questa sembra essere la posizione di Papa Francesco. Tant’è vero che in passato egli “ha concesso la benedizione alle coppie irregolari e omosessuali e l’apertura agli omosessuali e ai transessuali come testimoni di nozze o come padrini o madrine di battesimandi”.


4. Etimo e storia del s.f. frociaggine

Quanto al suffissato froci-aggine, il lessema è assente nella vocabolaristica scolastica (De Mauro 2000, Zingarelli 2024, Devoto-Oli 2024) e anche nel Grande dizionario [storico] della lingua italiana di S. Battaglia –G. Barberi Squarotti (1961-2009) 24 voll. ma non nel GRADIT 2007 (8 voll.) di T. De Mauro, che lo indica come s.f. “volg., l’esser frocio”, di “B[asso]U[so], con etimo sincronico: “deriv. di frocio con –aggine”, e lo data 1988.

Una scorsa in “Google libri ricerca avanzata” consente però di retrodatarlo alla metà degli anni 70:

Marco Tarchi 1974: “ricorrere alla immancabile frociaggine (La voce della fogna, Roccia di Erec, p. 14).

1977: “travestimento della ‘frociaggine, del porno politico” (“Panorama” p. 93).

1978: “Cosa meglio della omosessualità e del suo ghetto possono essere definiti come ‘unheimlich’, dato che vengono a minacciare la vostra vita ‘normale’ (e lente cicatrizzazioni)‎ delle altre forme sessuali...in primis la frociaggine? Il ghetto gay è ‘unheimlich’ perché potrebbe riportare a galla tutto ciò che avete espulso da voi dichiarandolo alieno […]” (“Ombre Rosse” p. 91).

Pier Francesco Paolini 1979: “La frociaggine invece consiste nel fare confusione fra i due verbi: essere e avere. Davvero ... non vuoi, ora, essere avuta da me?" (L'atto delle tenebre, Bompiani, p. 220).

AA.VV. 1980:· “con ribadita frociaggine”. D’altronde, l'istituzione di un'apposita ‘pagina frocia’ facilita da qualche tempo la corrispondenza fra omosessuali” (Laterza, Il Trionfo del privato, p. 246).

Possiamo ancora aggiungere che nel Vocabolario del Romanesco contemporaneo. Le parole del dialetto e dell’italiano di Roma di P. D’Achille e C. Giovanardi (Newton Compton 2023) appare il suffissato frocerìa “s.f. spreg. Modo di fare da omosessuale”, traducente dello sp. mariconería.





















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lunedì 27 maggio 2024

Il festival della lingua italiana




 Un'interessante iniziativa della Treccani

Il festival della lingua italiana


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«Vi racconto, in breve, l'accaduto». Di primo acchito la frase (e quelle simili) sembra perfetta. Ma a un attento esame presenta un'improprietà che in buona lingua è da evitare. Quale? La locuzione "in breve" adoperata nelle accezioni di "insomma", "infine", "concludendo", "per farla breve", "in una parola" e simili. La predetta locuzione, insomma, in buona lingua italiana, non ha una "valenza" conclusiva ma sta per "brevemente", "presto", "in breve tempo", "in breve spazio" e simili. Diremo (e scriveremo) correttamente, quindi: «Vi racconto, brevemente (non in breve), l'accaduto». Saremo sbugiardati da qualche “linguista d'assalto"? 


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Proprio non riusciamo a capire il motivo per cui il prestigioso ( e autorevole) vocabolario Treccani (in Rete), nonostante le nostre ripetute segnalazioni, si rifiuti di "aggiornare" il lemma '-ale'. È l'unico vocabolario, tra quelli consultati, a non attestare l' "occorrenza principe" del lemma in oggetto; i.e., come riporta -- tra gli altri -- il Nuovo De Mauro in linea: "forma produttivamente aggettivi che indicano relazione con il sostantivo (o raramente con il verbo) di base, ed è presente in aggettivi di origine latina o formati sul modello latino: autunnale, avverbiale, finale, funzionale, generale, industriale, ministeriale, mondiale, mortale, postale, principale, sostanziale, statale, universale; abituale, annuale, intellettuale, portuale, spirituale (...); la sostantivazione degli aggettivi è frequente, e numerosi di essi sono usati esclusivamente o prevalentemente come sostantivi maschili: bracciale, canale, ditale, gambale, giornale, grembiale, pugnale, schienale, segnale | ha valore accrescitivo in alcuni sostantivi maschili denominali: piazzale, viale | rientra genericamente nella formazione di termini di ambito tecnico specialistico: conidiale, chirale, geminale (...)". È una "mancanza" che, a nostro modo di vedere, inficia il prestigio e l'autorevolezza del vocabolario. Ma tant'è. È un mistero eleusino!


Dal vocabolario Treccani in Rete:


-ale. – Suffisso usato nella terminologia chimica per indicare la presenza, in un composto organico, di un gruppo aldeidico, come in citrale, geraniale, ecc.





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domenica 26 maggio 2024

Dappresso e davanti


I
l primo vocabolo, avverbio, si può scrivere anche in due parole, vale a dire in grafia analitica: da presso. Mai con l’apostrofo (d’appresso). Il secondo, preposizione impropria, si costruisce regolarmente con la a: abito davanti a lui. Si sconsiglia l’impiego della preposizione unita direttamente al sostantivo: passavo davanti la casa; meglio davanti alla casa. La medesima “regola” vale per dinanzi e checché ne dicano certi vocabolari e certi "scrittori" la "di" non è geminante, vale a dire non fa raddoppiare la "n" (*dinnanzi)*. L' "errore" è dovuto, probabilmente, per un accostamento analogico con “innanzi” il cui rafforzamento sintattico (raddoppiamento della “n”) è solo apparente perché la doppia “n” risulta dalla fusione di “in” e dalla locuzione latina “in antea” già contratta in “nanzi” (in + in antea = in nanzi = innanzi); dinanzi deriva, invece, dalla fusione di “di” e di “nanzi” = dinanzi).
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Vocabolario Palazzi: erroneo scrivere, come molti fanno, dinnanzi; essendo la voce composta dalla preposizione di, la quale non richiede raddoppiamento, e da nanzi; si raddoppia di solito per analogia con innanzi, ma quest'ultima voce è composta da in e nanzi e perciò a ragione si scrive con n doppia.


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Due parole sul verbo “inferire”, che ha due participi passati

Inferto e inferito sono participi passati del verbo "inferire", che ha due accezioni diverse: "causare danni o ferite, sia morali sia fisiche" e "arrivare a una conclusione", quindi dedurre, desumere. La coniugazione è la medesima di infierire, tranne che nella prima persona singolare e nella terza plurale del passato remoto e, appunto, nel participio passato. Avremo inferto, quando il verbo sta per "provocare danni" e inferito quando vale "dedurre": il malvivente gli ha inferto cinque coltellate; dalle indagini svolte la polizia ha inferito che l'uomo era estraneo ai fatti. Quanto al passato remoto avremo infersi e infersero nell'accezione di "cagionare danni" ; inferii e inferirono nel significato di "dedurre". Un'ultima annotazione. Inferire è un "quasi sinonimo" di infierire in quanto i due verbi hanno sfumature diverse; inoltre il primo è transitivo, il secondo intransitivo. Interessantissima, in proposito, l' «opinione» del Tommaseo.


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La lingua “biforcuta” della stampa

50mila allo Stadio Olimpico per incontrare Papa Francesco ed i bambini

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Correttamente: e i bambini. In questo caso la “d” di “ed” non è necessaria, anzi è cacofonica. Per l’uso corretto della “d eufonica” gli operatori dell’informazione possono vedere qui.



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venerdì 24 maggio 2024

Fratricida e sororicida

 


Tutti i vocabolari consultati (cartacei e in rete) definiscono "fratricida" l'uccisore del proprio fratello o della propria sorella e "sororicida" chi uccide (solo) la propria sorella. La cosa ci lascia un po' perplessi: perché fratricida è "ambivalente" e sororicida no? Non sarebbe bene seguire l'etimologia? Lasciare, cioè, "fratricida" solo per quanto attiene all'uccisione di un fratello, visto che sororicida indica l'assassino/a della sorella? Per non fare "due pesi e due misure" perché non aggiungere, allora, al lemma sororicida che, per estensione, vale anche per designare l'uccisore del fratello?  Ci auguriamo che i vocabolaristi prendano in esame il nostro suggerimento.


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La lingua “biforcuta” della stampa

Sofia Stefani, la vigilessa uccisa dall'ex comandante: «Giampiero Gualandi aveva in mente l'omicido». I messaggi e le 15 chiamate il giorno della morte

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Nonostante le raccomandazioni dell’Accademia della Crusca e di altri insigni linguisti, gli operatori dell’informazione persistono, imperterriti, nel diffondere lo strafalcione. Vigile si può definire un nome epiceno, vale, cioè, tanto per il maschile quanto per il femminile. Correttamente, quindi: la vigile. Quanto al refuso...

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Vigilesse si sposano in alta uniforme a Bari, il sindaco Decaro celebra le nozze: «Solo l'amore conta»

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Senza parole!

Dal Treccani :

Per il personale di sesso femminile, si usa in genere vigile preceduto dall’art. femm. (la vigile che sorveglia l’uscita dalla scuola; una vigile inflessibile), ma con sfumatura più o meno iron. o scherz., talvolta spreg., anche vigilessa!


 Da “Sapere.it”:

Il nome vigile, secondo le normali regole della lingua italiana, è maschile o femminile secondo se si riferisce a uomo o a donna: il vigile, la vigile. È in uso anche vigilessa, che però può avere anche tono scherzoso o valore spregiativo, come tradizionalmente hanno avuto diversi femminili in -essa. Alcuni poi preferiscono utilizzare il nome vigile al maschile anche per una donna. Si tratta di una scelta che non ha basi linguistiche, ma sociologiche, e che comunque può creare, nel discorso, qualche problema per le concordanze. Il vigile urbano può avere nomi diversi a livello regionale: per esempio ghisa a Milano (per allusione scherzosa al cappello alto e rigido della divisa tradizionale), civico in alcune regioni dell’Italia settentrionale e pizzardone a Roma. Si tratta però di denominazioni antiquate, sempre meno usate se non quando si vuol fare del “colore locale”. 


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Anziana morta in casa nel foggiano, fermato uomo nudo e insanguinato

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In buona lingua: Foggiano (F maiuscola), trattandosi di un’area geografica.



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giovedì 23 maggio 2024

Sull'uso corretto di alcuni lemmi

  


Derisore. Aggettivo e sostantivo. Come aggettivo, terminando in e, nel femminile singolare resta invariato. In funzione di sostantivo, invece, nella forma femminile singolare, di uso raro, muta la e in a: derisora. Alcuni vocabolari, però, riportano “dereditrice/ci”. 

Vocabolario della corretta pronunzia italiana‎ - Pagina 253 

Giuseppe Malagòli, Luciano Luciani - 1969 - 997 pagine 

... sm (f. raro, derisora). ... 

Il Dop, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia, stranamente, attesta il termine solo come sostantivo. 

 

Operare e Obbligare. Ciò che stiamo per scrivere non ha l’ “avallo” di alcuni vocabolari, ma a nostro modo di vedere molto spesso si dà ai verbi “operare” e “obbligare” un significato che propriamente non hanno. Cominciamo con il verbo “operare” che propriamente, appunto, significa “compiere un’operazione”. Oggi è invalso l’uso di adoperarlo con l’accezione di “fare”, "procurare", "produrre" e simili: quell’incidente ha “operato” in lui un profondo cambiamento. Si dirà molto meglio: ha “prodotto” in lui un profondo cambiamento. Ancora peggio - sempre a nostro modo di vedere - il ‘riflessivo’ “operarsi” per: prodursi, avvenire, accadere, farsi, manifestarsi. A questo proposito ci sembra addirittura ridicola l’espressione tipo “due anni or sono ‘mi sono operato’ alla gamba destra”. In buona lingua italiana diremo: ‘sono stato operato’ o ‘mi sono fatto operare’. E veniamo a “obbligare” che non significa “essere grato, riconoscente” o “ringraziare”. Chi ama il bel parlare e il bello scrivere, quindi, eviterà frasi tipo “le sono obbligato per ciò che ha fatto”, dirà, correttamente: le sono grato, riconoscente e simili, per ciò che ha fatto. 


Estemporaneo. Si presti attenzione a questo aggettivo perché può trarre in inganno. Molti, infatti, lo adoperano con il significato di ‘strampalato’, ‘avventato’: Giovanni, il tuo comportamento è stato estemporaneo (volendo dire ‘avventato’). No, amici, estemporaneo significa, invece, ‘improvvisato’, ‘senza preparazione’: Pasquale ha tenuto un discorso estemporaneo, vale a dire ‘improvvisato’ 


Quotare. Speriamo di non essere colpiti dagli strali dei cosí detti linguisti d’assalto. L’argomento, diciamolo subito, si presta perché intendiamo parlare dell’uso “corretto” del verbo quotare. Questo verbo denominale, dunque, propriamente significa «stabilire una quota che ciascuno deve dare», «assegnare un prezzo» e simili. Alcuni (tutti?), invece, gli danno un significato che, a nostro modesto avviso, non ha: apprezzare, stimare, giudicare e simili. I critici d’arte, infatti, scrivono, per esempio, che «quel pittore è molto quotato», i critici musicali, da parte loro, scrivono che quel «cantante è assai quotato». La domanda, a questo punto, viene spontanea, come usa dire: il pittore e il cantante costano molto? Bando agli scherzi, è chiaro che entrambi i critici intendevano dire che il pittore e il cantante sono molto apprezzati, stimati, tenuti in gran conto e simili. Perché, allora, non adoperare questi verbi che fanno alla bisogna, secondo i casi, e usare “quotare” solo nel significato proprio? 


 

Esaudire. Si presti attenzione al corretto uso del verbo "esaudire" perché molto spesso è adoperato intransitivamente. La sola forma corretta è quella transitiva. Esaudisco la tua richiesta, quindi, non "alla" tua richiesta. 



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lunedì 20 maggio 2024

Meno: il suo uso corretto


C
aro Direttore,

la prego cortesemente di volere pubblicare, sul suo autorevole portale, questa mia lettera aperta indirizzata agli amanti del bel parlare e del bello scrivere, perché ho notato che non tutti adoperano correttamente la nostra bella e musicale lingua. E quanto sto per scrivere mi riguarda da vicino perché sono la parte... lesa. 

Mi sono accorto, però, di non essermi presentato, chiedo scusa e rimedio subito. Sono Meno e provengo dal nobile latino "minus", neutro di "minor, minoris" che alla lettera significa "minore". In lingua italiana svolgo, di volta in volta, varie funzioni ed è proprio di queste che desidero parlare perché molti - e tra questi mi spiace annoverare anche le cosí dette grandi firme del giornalismo e gente di cultura - mi attribuiscono funzioni e significati che spesso non ho; ciò mi turba moltissimo in quanto vedo calpestata la mia personalità, quasi fossi una sorta di... straccio buono per qualsivoglia uso. No, amici, consentitemi di reagire con la massima fermezza a questo abuso, anzi sopruso cui quasi quotidianamente sono vittima.

 Con questa lettera aperta desidero, quindi, chiarire una volta per tutte le mie importantissime "mansioni" nell'ambito della lingua, sempre piú vilipesa da giornalisti e scrittori che non perdono occasioni per "esibirsi" in televisione e pubblicizzare, cosí, il loro primo e quasi sempre unico libro. Se non ricordo male, un tempo si diceva che il nostro Paese è un popolo di navigatori, di poeti e di... scrittori. E che scrittori! Gente che mi adopera con il significato di "no" nel costrutto disgiuntivo come, per esempio, «ignoro se il colpevole sia stato riconosciuto o meno dai testimoni». In casi del genere offendono me, ma soprattutto il mio collega No, il solo avverbio autorizzato dalla "legge grammaticale" a 'comparire' nelle frasi disgiuntive. È altresí scorretto chiamarmi in causa facendomi precedere dalla preposizione impropria 'senza' con il significato di "senza dubbio": verrò senza meno. No, si deve dire, appunto, "senza dubbio". Per quanto riguarda l'espressione "quanto meno" è preferibile sostituirla con "almeno". Ma vediamo, cortesi amici, le mie precise funzioni e il relativo corretto uso. La funzione 'principe' è quella avverbiale; unito a un verbo indico, infatti, una quantità 'minore': Giovanni mangia meno. 

Svolgo la medesima funzione unito agli aggettivi: meno bello; meno gradito. Sono correttamente adoperato anche come aggettivo e avverbio per formare il comparativo di minoranza e, se preceduto dall'articolo determinativo, concorro alla formazione del superlativo relativo di... minoranza: è meno ricco (comparativo di minoranza); è il meno ricco (superlativo relativo). Adoperato in correlazione con il collega Piú formo le espressioni "piú o meno"; "poco piú poco meno" che valgono 'approssimativamente', 'all'incirca': in sala c'erano piú o meno duecento persone. Il mio impiego è anche corretto con significato negativo purché - come ho già detto - non sia inserito nei costrutti disgiuntivi (frasi interrogative doppie): l'ho rivisto quando meno me l'aspettavo. 

Quando sono in veste di sostantivo - cosa importante e da sottolineare - non posso essere pluralizzato in quanto assumo un valore neutro e come tale indico la "piú piccola cosa": è il meno (cioè: la piú piccola cosa) che potessi fare per ringraziarti. Preceduto dall'articolo determinativo plurale 'i' vengo impiegato riferito a persone per indicare la "minor parte", "la minoranza": sono i meno (la minoranza) ad assumere un atteggiamento come il tuo. Quest'uso, per la verità, non lo consiglio, anche se in regola con le leggi della grammatica. Non è piú elegante dire e scrivere: ad assumere un atteggiamento come il tuo è la minoranza? Gentili amici, ho cercato di non scadere nella pedanteria, spero di esserci riuscito. Vi ringrazio della cortese attenzione prestatami ed esterno pubblica riconoscenza al Direttore per la sua squisita ospitalità.

Ancora un grazie di cuore e un saluto affettuoso dal vostro amico

Meno.



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domenica 19 maggio 2024

Zaffìro o zàffiro? Pronuncia piana o sdrucciola?


Riproponiamo una vecchia intervista rilasciataci dal sig. Zaffìro, perché...

Incontriamo il sig. Zaffíro negli studi di una televisione privata: sta per essere venduto all’asta a un prezzo che egli non ritiene “adeguato” alla sua persona. Ma non è questo che lo irrita tanto, quanto il fatto che la maggior parte delle persone (anche quelle “acculturate”) pronunciano il suo nome in modo errato: con l’accento sulla ‘a’ anziché sulla ‘i’. Ciò lo rende nervoso e scostante, ma vista la nostra garbata insistenza accetta di riceverci.

- Allora, signor Zàffiro, mi scusi Zaffíro, ha fatto una ricerca particolare sul suo nome? Come mai si irrita se la chiamano Zàffiro, con l’accento sulla ‘a’?

- Lei al mio posto che farebbe? Accetterebbe con serenità il fatto che tutti, o quasi, pronunciano in modo scorretto il suo nome? Non si sentirebbe offeso vedendo calpestata la sua personalità?

- Ci parli della sua ricerca. Perché la pronuncia corretta è piana, ossia con la ‘i’ tonica, vale a dire accentata?

- Come lei certamente saprà, la maggior parte dei vocaboli della nostra lingua sono piani; ma non è questo il “vero” motivo: la mia discendenza è nobile vengo, infatti, dalla lingua classica, dall’aristocratico latino “sapphírus”, con tanto di ‘i’ lunga che in italiano si deve sentire e, per questo, deve essere accentata nella pronuncia. Naturalmente nella lingua parlata, non in quella scritta. Per essere estremamente chiaro aggiungerò che il latino “sapphírus” non è altro che l’adattamento del greco “sàppheiros” derivato, a sua volta, dal semitico “sappír”.

- Se può esserle di consolazione, sappia che altri signori, al pari di lei, vedono il loro nome “storpiato”: il verbo ‘valutare’, per esempio. Tutti dicono io vàluto e non valúto, con l’accentazione sdrucciola invece di quella corretta piana.

- Sí, lo so. Ho fondato un’associazione cui possono iscriversi tutti coloro che ritengono errata la pronuncia del proprio nome. Lo scopo è quello di sensibilizzare la gente sul problema dell’esatta pronuncia delle parole.

- Può prendersi la responsabilità di spiegarci il motivo per il quale il signor Valutare, durante la sua coniugazione, deve avere l’accentazione piana?

- Senz’altro. I motivi sono due. Il primo, che potremmo definire “logico”, si richiama all’accentazione dell’infinito: se un verbo, all’infinito, ha l’accentazione piana non si capisce perché deve/deva/debba cambiarla nel corso della coniugazione. Questa regola, però, ha le sue brave eccezioni che in questa sede non è il caso di citare. L’altro motivo è rappresentato dal fatto che un verbo conserva l’accento che ha il sostantivo corrispondente. Questa semplice regoletta è molto piú “sicura” della precedente. Qualche esempio renderà tutto piú chiaro. Il sostantivo corrispondente del verbo valutare è la valúta (moneta). Diremo, quindi, io valúto perché si dice la valúta, non la vàluta. Io dèrogo perché si dice la dèroga e non la deròga. Da ricordare, inoltre, che in linea di massima un verbo composto mantiene l’accento del verbo sul quale è formato.

- La ringraziamo per la sua gentilezza e per le sue preziosissime delucidazioni.

- Mi consenta ancora due parole.

- Prego…

- Perché nei casi dubbi la gente non ricorre all’ausilio di un buon vocabolario?

- Ha perfettamente ragione.


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La lingua “biforcuta” della stampa

Iran, Raisi disperso: il convoglio di elicotteri su cui il presidente iraniano viaggiava ha avuto un incidente. L’agenzia Fars: “Pregate”. Khamenei riunisce il Consiglio di sicurezza nazionale

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Per i “massinformisti” Raisi possiede il dono dell’ubiquità: era, infatti, in tutti gli elicotteri che formavano il convoglio. In buona lingua: (…) il convoglio di elicotteri, su uno dei quali il presidente iraniano viaggiava (…).



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)

lunedì 13 maggio 2024

Si è specialisti ed esperti "di" (qualcosa) non "in" (qualcosa)

 


Ci piacerebbe, anzi sarebbe il caso che l'Ordine Nazionale dei Medici Chirurghi "costringesse" - per il "bene dell'italico idioma" - i suoi iscritti a un uso corretto della lingua nell'intestazione dei ricettari, nelle targhe affisse nei portoni e nei biglietti di (sic!) visita. E ci spieghiamo. Si legge sempre, per esempio, "dott. Caio Sempronio, medico chirurgo specialista in cardiologia". Contrariamente a quanto sostengono alcuni 'linguisti d’assalto’ si è specialisti "di" qualcosa, non "in" qualcosa: specialista di arte antica; specialista di arti marziali; specialista di dermatologia ecc. La preposizione "in" è adoperata correttamente solo con l'aggettivo specializzato: medico specializzato in pediatria. Insomma, in buona lingua italiana, si è "specialista di qualcosa" e "specializzato in qualcosa". Occorre aggiungere, in proposito e per curiosità, che tanto "specialista" quanto "specializzato" quando videro la luce nella lingua di Dante furono avversati dai puristi perché ritenuti francesismi, ma con il tempo hanno ottenuto il pieno riconoscimento della "cittadinanza linguistica italiana". Il medesimo discorso per quanto attiene all’aggettivo esperto: non si è esperti in qualcosa, ma di qualcosa: esperto di storia antica.



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