giovedì 6 luglio 2023

Scrivete straniero e sarete puniti


 Non riusciamo a leggere un giornale italiano se non abbiamo a portata di mano un vocabolario...  inglese-italiano (potrebbe essere uno dei motivi del calo di vendite dei giornali? Non tutti "masticano" la lingua di Albione e non tutte le famiglie dispongono di un dizionario di inglese). Riproponiamo, in proposito, un nostro vecchio intervento sull'uso (quasi sempre errato, oltre tutto) dei barbarismi che imperversano sulla carta stampata e no.

Scartabellando tra le nostre cose ci è capitato sotto gli occhi “il Giornale” di qualche anno fa in cui un titolo ha richiamato la nostra attenzione: “Scrivete straniero e sarete puniti”.

L’articolista era Luciano Satta che in quel quotidiano era il titolare di un’interessantissima rubrica di lingua: “Non usate parole straniere perché le sbagliate o ve le sbagliano” (si riferiva, forse, alla scomparsa figura del correttore di bozze? ndr.). “E quando le sbagliate la brutta figura è tutta vostra”. Seguiva un elenco di vari incidenti nei quali sono incorsi, ultimamente, scrittori e giornalisti “di grido”: errori di traduzioni, lettere saltate, accenti errati e arbitrii sintattico-grammaticali.

Mai parole furono più “sante” e tuttora attuali.

Oggi, con la rivoluzione tecnologica avvenuta nei giornali (ma non solo), i “pezzi” non vengono più composti (scritti) dai tipografi e inviati in correzione al vaglio di personale altamente qualificato (correttore di bozze); oggi gli articoli vengono composti al videoterminale dai giornalisti che sono gli unici responsabili degli eventuali strafalcioni; prima, con la composizione a piombo, l’ignoranza linguistico-grammaticale del redattore era imputata all’ignoranza del correttore di bozze. Il progresso tecnologico sta mettendo a nudo molte verità “nascoste”. Una prova lampante di quanto affermiamo è il titolo di un quotidiano locale (che non menzioniamo per carità di patria): “Tra pentiti e non”. Quel “non”, maledettamente errato, balza evidente agli occhi del lettore accorto. Gli avverbi di negazione “no” e “non” hanno usi nettamente distinti. Il primo (no) appartiene alla schiera delle così dette parole olofrastiche (dal greco “hòlos”, intero e “phrazo”, dichiaro) che, riassumendo in sé un’intera frase, debbono essere sempre isolate e in posizione accentata (non debbono essere seguite, cioè, da un’altra parola): vieni o no? È evidente, da questo esempio, il fatto che il “no” è olofrastico, sottintende e riassume “o non vieni”. Il secondo avverbio (non) non si può trovare mai in posizione accentata (cioè da solo), si usa sempre come proclitico, vale a dire "unito" a una parola che necessariamente lo deve seguire: vieni o non vieni? Il titolo incriminato, per tanto, avrebbe dovuto recitare – in forma corretta – “Tra pentiti e no”.

Ma torniamo ai barbarismi di cui trabocca la carta stampata e no.

 Personalmente, e a costo di sembrare “codini” (reazionari), siamo per un reciso ‘no’ alle parole straniere, non tanto per la brutta figura (di cui si preoccupa, bontà sua, Luciano Satta), quanto e soprattutto perché il barbarismo che imperversa sulla stampa ha fatto dimenticare agli articolisti (e ai lettori, loro malgrado) il buon uso della lingua madre.

Moltissime “penne” sono convinte del fatto che l’uso di termini stranieri dia un “tono” ai loro scritti e li adoperano indiscriminatamente (quasi sempre senza conoscerne il significato); assistiamo, così, a “spettacoli linguistici orrendi”. Tanto per cominciare, gentili amici, lo “stranierese” resta sempre singolare. Abbiamo letto, in una cronaca sportiva, che la “squadra azzurra aveva molte chanches”. Satta ha ragione da vendere, questo titolo è doppiamente errato: la grafia e la forma plurale del vocabolo “barbaro”. E che dire della bevanda che si ottiene dalle foglie della Camellia sinensis, arbusto originario dell’Estremo Oriente, che tutti - indistintamente, scrivono the o, ancora peggio, thè invece di tè? I critici cinematografici e televisivi amano scrivere “ciack” o “ciak” in luogo della forma corretta italiana “ciac”. Gli economisti scrivono “crack” per indicare un fallimento, un crollo bancario, invece dell’italianissimo “crac”. Questi ultimi sbagliano doppiamente volendo adoperare un termine straniero al posto di quello italiano che fa tanto… volgare (per loro, naturalmente). La voce, infatti, non è inglese – come comunemente si crede – ma tedesca: Krach. Se non si vuole adoperare l’italiano “crac” si usi, almeno, il termine straniero corretto che è “Krach”, appunto. Questa voce si è diffusa in tutte le lingue europee – quindi anche in quella inglese – in seguito al crollo bancario avvenuto a Vienna il 9 maggio 1873.

Potremmo continuare ancora, ma non vogliamo tediarvi oltre misura. Concludiamo, però, con le parole di Niccolò Tommaseo: "(il barbarismo è) usare senza necessità voci straniere, mutare la forma grammaticale e analogica delle voci, pronunziare o scrivere spropositato". Senza necessità, per l'appunto.

1 commento:

  1. Un paio di settimane fa, parlando alla radio, una dottissima professoressa ha spiegato al volgo i pregi della street art. Ricordo perfettamente una frase: "[Sgarbi] ... ha sdoganato la strìt art, portandola dall' andergraund al mèin strim".
    Immagino che fosse convinta di parlare ad un gruppo di turisti anglofoni.

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