giovedì 30 novembre 2017

Severo e grave sono sinonimi?


L'aggettivo severo si può adoperare, soprattutto nel campo medico, come sinonimo di "grave"?  La "parola" a Giuseppe Patota (Crusca).
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La parola segnalata da questo portale (ripresa dal Treccani): martingala. La proponiamo perché è una polisemica, ha, cioè, diversi significati, di cui alcuni quasi sconosciuti. Per quanto attiene all'origine del termine, sebbene incerta, diamo la "parola" a Ottorino Pianigiani. Si veda anche qui e qui.

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Per rilassarvi, dopo una giornata di lavoro, cliccate qui.

martedì 28 novembre 2017

In "difesa" di Ottorino Pianigiani (2)

Ancora una volta vogliamo spezzare una lancia in difesa di Ottorino Pianigiani, ritenuto - da molti linguisti - non fededegno: il suo dizionario etimologico sarebbe il frutto di "ricostruzioni fantasiose". Vediamo. Prendiamo il termine "casamatta". Tutti i vocabolari si limitano nel dire che il vocabolo è composto di casa e "matta", nel senso di "falsa". Sotto il profilo prettamente etimologico, quindi, una casamatta è una casa falsa. Il Pianigiani, invece, è ricco di "notizie" inerenti all'origine del vocabolo. Dopo averle lette, giudicate voi se sono il frutto di "ricostruzioni fantasiose". Si clicchi qui.


lunedì 27 novembre 2017

Il delitto e l'omicidio


I delitti sono proporzionati alla purezza della coscienza, e quello che per certi cuori è appena un errore, per alcune anime candide assume le proporzioni di un delitto.


 Questo pensiero dello scrittore francese Balzac ci ha richiamato alla mente il fatto che gran parte delle persone confondono il delitto con l’omicidio, nel senso  che ritengono i due termini l’uno sinonimo dell’altro (e la colpa, forse, è anche della stampa, maestra nell’arte di confondere le  “idee linguistiche” alle persone sprovvedute). No, gentili amici, il delitto e l’omicidio non sono affatto sinonimi anche se l’omicidio è un... delitto, come è un delitto, del resto,  il latrocinio o il rapimento. Il delitto, per tanto – lo avrete capito – è un qualunque reato. Compiono un’azione delittuosa, quindi, tutti coloro che – come dice l’etimologia del termine – “vengono meno (al dovere)” e  “commettono una mancanza”. Ma vediamo di spiegarci meglio. Il delitto, dunque, sotto il profilo etimologico, è il latino  “delictu(m)” (crimine, reato), derivato di  “delictum”, supino del verbo “delinquere”. Il verbo latino, a sua volta, è composto con la particella  “de”, con valore intensivo, e con il verbo  “linquere” (lasciare, abbandonare), con il significato, quindi, di  “lasciare indietro”, “mancare” e, per tanto,  “venir meno (al dovere)”, “commettere una mancanza”, “commettere una colpa”. Il ladro, quindi, commette un  “delitto” rubando; l’assassino commette un “delitto” uccidendo. Come si fa a sostenere, dunque, la tesi secondo la quale l’omicidio e il delitto sono la stessa cosa?  Tutte le persone che commettono un reato, un delitto “delinquono”, vale a dire – come abbiamo visto -  “abbandonano la via (della giustizia, della legge)”. Il delinquente chi è, infatti,  se non colui che si allontana dalla retta via? Alcuni vocabolari ci contraddicono... Ma tant'è. E a proposito di omicidio, si legge e si sente dire, spesso, l'omicidio di Moro (e simili). L’espressione ci sembra impropria: l'ucciso non ha commesso l'omicidio (come ci farebbe pensare la preposizione “di”), lo ha "subìto". Consigliamo, quindi, di omettere la preposizione di e scrivere: omicidio Moro.

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venerdì 24 novembre 2017

Lettera aperta alla redazione del vocabolario Treccani


È trascorso un anno... Riproponiamo questa lettera aperta alla Treccani



Gentile Redazione, tempo fa avevamo segnalato un "errore" riscontrato nel vocabolario al lemma "defatigare" dove si legge che "defaticare" (con la "c") è variante poco comune. Non è esatto, anche se altri vocabolari cadono nel vostro stesso... errore. I due verbi hanno significati distinti, non sono sinonimi e lo specificano chiaramente il Sandron, il Devoto-Oli  e il Gabrielli. Defatigare è pari pari il latino "defatigare", composto con  "de" (particella "rafforzativa") e "fatigare", stancare, spossare, affaticare e simili. Defaticare, invece, è composto con la particella "de", che indica "allontanamento" e il sostantivo fatica ("che allontana, che toglie la fatica"). Defatigare, dunque, è un deverbale; defaticare un denominale, con significati completamente diversi. Stupisce il constatare che l'autorevole e prestigioso vocabolario Treccani non faccia distinzioni di sorta tra i due verbi... Con la speranza che questa missiva sia presa nella dovuta considerazione, porgiamo i nostri piú rispettosi ossequi. F.R.


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La parola proposta da questo portale, ripresa da "Sapere.it": lebete. Sostantivo maschile.
Indica(va) un recipiente per cuocere qualcosa o per lavarsi.

giovedì 23 novembre 2017

Indecenze ortografiche dei media


Ci dispiace dover censurare, di tanto in tanto, la “lingua” degli operatori dell’informazione, quelli della carta stampata particolarmente, anche se molti di questi posseggono una laurea in lettere e si piccano di “fare la lingua”; non è sufficiente una laurea in materie letterarie per potersi fregiare del titolo di “linguista”. Non possiamo, dunque, rimanere impassibili davanti a orrori ortografici di cui è infarcita la stampa e gli “opinionisti” non possono piú addebitarli alla “svista” dei correttori di bozze, categoria professionale ormai estinta: l'orrore è tutto loro. Vediamo, dunque, sfogliando a caso qualche quotidiano, alcune “indecenze ortografiche”, in corsivo gli orrori. L’arrestato, per farsi compatire, camminava a d’ubriaco; con quel pò pò di alterigia era naturale che tutti lo snobbassero; nella casa degli orrori è comparsa la scritta villa d’ affittare; in quella notte tranquilla gl’ astri brillavano sullo sfondo azzurro; nessun’ uomo, di questi tempi, può sentirsi tranquillo se abita una villa isolata; qual’è il difetto peggiore, domandò all’intervistata; il suo comportamento è veramente d’ ammirare; gl’ umori degli astanti non lasciavano presagire nulla di buono; il suo modo di fare è pressocché inaccettabile; il ragazzo è uscito dal coma grazie all’attente cure della mamma; sei proprio un bel angelo, disse la mamma al figlioletto; fate attenzione, recitava un cartello affisso nella fabbrica, gl’ acidi sono nocivi alla salute; l’auto dei banditi non ha rispettato l’alt della polizia e ha accellerato la corsa; l’uomo è stato investito sulle striscie pedonali; il ministro ha, però, ribadito che non tutti beneficieranno delle agevolazioni; ieri siamo andati ha vedere uno spettacolo meraviglioso; il ricercato scorazzava tranquillamente per la città; il luogo dell'incidente è prospicente la chiesa. Potremmo continuare, ma non vogliamo tediarvi oltre misura.



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La parola proposta da questo portale: paperaio. Sostantivo maschile derivato da papera con l'aggiunta del suffisso collettivo "-aio". Termine non comune, atto a indicare un gruppo di persone, donne in particolare, che si comportano in modo ridicolo e chiassoso.

martedì 21 novembre 2017

"Anomalie" sintattico-grammaticali


Pilucchiamo qua e là, senza un preciso ordine logico, ma come ci vengono alla mente, dal linguaggio comune alcuni strafalcioni o "anomalie" sintattico-grammaticali che gli amatori della lingua devono assolutamente evitare. Cominciamo con il verbo “tenere” adoperato, il piú delle volte, con il significato di “possedere”, “avere”. Tale uso è da non seguire essendo di carattere prettamente dialettale; il significato proprio (e “corretto”) del verbo è “sostenere”. Non si dirà, per tanto, “tengo una bella casa” ma, correttamente, possiedo una bella casa. Da evitare anche - se si vuole parlare e scrivere bene - la locuzione “tenere il letto” nel senso di “stare, rimanere a letto”. Questo verbo, inoltre, non è sinonimo - come molti erroneamente credono - dei verbi “reputare”, "stimare" e “giudicare”. Le espressioni comuni, quindi, “tenere in molto o poco conto”, “tenere in molta o poca considerazione” una persona sono da gettare, decisamente, alle ortiche. Sí, sappiamo benissimo che molte “grandi firme” le adoperano a ogni piè sospinto, ma sappiamo, anche, che molte grandi firme usano la lingua a loro piacimento: non rispettano assolutamente le piú elementari norme grammaticali. Voi, amici blogghisti amanti della lingua, non seguite questi esempi "nocivi". Non adoperate - come abbiamo letto in una grande firma del giornalismo, che non nominiamo per carità di patria, il verbo tenere nelle accezioni di: importare, desiderare, volere, premere. Sono tutte forme dialettali e di conseguenza orrendamente scorrette in uno scritto sorvegliato. Ancora. Il verbo “marcare”, che etimologicamente sta per  “segnare, contrassegnare con marchio”, “bollare”, non si può adoperare - sempre che si voglia parlare e scrivere correttamente - come sinonimo di  “annotare”, “prendere nota”, “registrare” o con il significato, obbrobrioso, di “rimarcare con la voce”. In quest’ultimo caso ci sono altri verbi che fanno alla bisogna: accentuare, caricare, rafforzare. E finiamo con l’aggettivo “marrone” che non va mai pluralizzato. Diremo, quindi, guanti marrone; scarpe marrone (non “marroni”) in quanto si sottintende “del colore del marrone”, cioè del frutto del castagno: due vestiti (del colore del) marrone. La medesima "regola" per quanto attiene all'aggettivo "arancione": una camicia arancione; due camicie arancione. E a proposito di marrone, segnaliamo un termine  non comune: marroneta. Sostantivo femminile sinonimo di castagneto. È composto del sostantivo "marrone" e del suffisso "-eta" (insieme di...).


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Tutti dovremmo sapere che - stando alla regola generale - i verbi transitivi, nella forma composta attiva prendono l’ausiliare avere (ho amato), in quella del passivo l’ausiliare essere (sono lodato). Gli intransitivi, avendo soltanto la forma attiva, prendono ora l’ausiliare avere (ho dormito), ora l’ausiliare essere (sono partito) secondo l’uso comune. Solo un buon vocabolario potrà sciogliere i dubbi che possono di volta in volta insorgere a tale riguardo. Nonostante ciò ci capita di leggere sulla stampa frasi in cui l’uso dell’ausiliare è errato. Vediamo, piluccando qua e là, alcuni esempi in cui l’ausiliare è, per l’appunto, errato; in corsivo l’ausiliare errato, in parentesi quello corretto. Una immensa folla ha affluito (è affluita) in piazza S. Pietro per ascoltare le parole del Pontefice; dopo l’incidente il treno è (ha) deviato presso la stazione piú vicina; l’incendio, che ha (è) divampato rapidamente, ha impegnato per molte ore i vigili del fuoco; le Frecce Tricolori sono sorvolate (hanno sorvolato) su piazza del Popolo; la notizia clamorosa dell’arresto eccellente ha dilagato (è dilagata) rapidamente per tutta la città; l’operazione di polizia ha avuto luogo appena ha (è) annottato; il ragazzo stava per morire dissanguato perché il sangue aveva (era) fluito dalla ferita per parecchie ore. Potremmo continuare ma ci fermiamo qui. Un’ultima annotazione. Per quanto riguarda i vocabolari è meglio "spulciare" diversi dizionari: molto spesso uno contraddice l’altro. Se due su tre concordano...



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Un sito utile per l'apprendimento di una corretta pronuncia (ortoepia) dell'italico idioma.





lunedì 20 novembre 2017

Che zagaglia!


La parola, ripresa dal Treccani, proposta da questo portale: zagaglia. Sostantivo femminile; indica un'arma simile alla lancia. Si veda anche qui e qui.

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"Epifanizzare"? Sí. Ce lo spiega la Crusca.

domenica 19 novembre 2017

"La lingua della musica"


Anche i "quiz" di questa settimana - proposti dalla Crusca in collaborazione con il quotidiano la Repubblica - hanno poco che vedere - a nostro parere -  con «l'Italiano, conoscere e usare una lingua formidabile», come recita il titolo dei volumi redatti dalla stessa accademia. Su 8 domande solo 3 fanno riferimento alla lingua di Dante. Di queste, la sesta - che riportiamo - ci lascia perplessi perché la risposta che si deve dare ("zeppa") non si trova in nessuno dei "sacri testi grammaticali" in nostro possesso. La riportano solo i dizionari (ma bisogna saperlo, ovviamente) tra cui il vocabolario Treccani in rete, al punto 2/b.
Nel verso volare, oh oh, come si chiama quell’oh, oh?
onomatopea     zeppa

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La parola proposta da questo portale: omeomeria. Sostantivo femminile del linguaggio filosofico; sta per "somiglianza".

venerdì 17 novembre 2017

Osservazioni... (4)


Probabilmente non tutti saranno d’accordo su quanto stiamo per scrivere (ogni giudizio, ovviamente, è soggettivo). Nel nostro lessico c’è un verbo che  “sa” troppo di burocrazia e andrebbe,  a nostro modo di vedere, sostituito con altri piú  “consoni”. Il verbo incriminato è  “declinare”. Non dimentichiamo che l’accezione primaria del suddetto verbo è  “volgere, tendere gradatamente al basso” derivando dal latino “chinare” (inclinare): la montagna ‘declina’ verso la pianura. Adoperarlo nel senso di  “rendere noto” o di “respingere” ci sembra, per l’appunto, un  “abuso linguistico”. Spesso, anzi sempre, si sente dire o si legge “declinò le generalità” (le rese note); la direzione “declina ogni responsabilità”; Mario “ha declinato l’invito”. Non è meglio dire “respinge” ogni responsabilità; “dette” (o riferí) le generalità e “ha rifiutato, non ha accettato” l’invito? Declinare, insomma, è un verbo che, a nostro avviso, meno si usa nelle accezioni “incriminate” meglio è per il  “bene” della lingua di Dante.

Le cronache dei giornali ci hanno abituato, purtroppo, a convivere con un bruttissimo barbarismo: cappottare. Leggiamo, sovente, frasi del tipo: l’automobile, dopo il pauroso scontro, si è cappottata e tutti gli occupanti sono deceduti sul colpo. Premesso che non vorremmo mai leggere notizie di questo tenore, vogliamo spendere due parole sull’origine e sull’uso di questa orribile... parola. Innanzi tutto è un francesismo e in quanto tale in buon italiano non si dovrebbe adoperare. Ci sono termini italianissimi  che fanno alla bisogna: capovolgere e ribaltare. Il francese “capoter”, da cui l’italiano “cappottare”, è un termine di origine marinaresca e sta a indicare il rovesciarsi di una nave. Dalle navi il vocabolo è passato, consolidandosi, al linguaggio automobilistico e aeronautico. Se proprio lo si vuole adoperare lo si usi, almeno, con una sola “p”: capottare. Cosí facendo si ferisce una sola lingua, non due. “Cappottare”, a nostro modo di vedere, è un termine ibrido: né francese né italiano. Dimenticavamo una cosa ancora piú importante, se proprio si vuole adoperare questo verbo barbaro: il suo ausiliare “naturale” è ‘avere’ (non essere); l’auto ‘ha’ capottato. Perché? Perché come tutti i verbi che indicano un moto fine a sé stesso si deve coniugare con l’ausiliare avere.

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 La parola proposta da questo portale: cachinnare. Verbo - derivato di cachinno - che vale "ridere sguaiatamente,  rumorosamente". Nella lessicografia della Crusca troviamo l'avverbio squaccheratamente, vale a dire "ridere sconciamente, con grande strepito". Si veda anche qui.

giovedì 16 novembre 2017

"Non ancora..." o "ancora non..."?



Un interessante articolo della Crusca su: «Non ancora» e «ancora non».

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Divertitevi con la lingua italiana cliccando qui.

mercoledì 15 novembre 2017

Il "sesso" del/della carcere


Il figliolo di un nostro amico ha “rimediato” un’insufficienza in un componimento in classe perché ha scritto “una” carcere anziché  “un” carcere, come gli ha fatto rilevare il suo professore di lingua e letteratura italiana. Ci dispiace immensamente per il figlio del nostro amico, ma ci dispiace ancora di piú per la “pochezza linguistica” dell’insegnante di scuola media superiore: l’alunno “sbagliando” non ha... sbagliato. Ci spieghiamo meglio.  Carcere – e il professore dovrebbe saperlo – nel singolare può essere tanto di genere maschile quanto di genere femminile, anche se quest’ultimo è di uso, per lo piú, letterario (nel plurale è tassativamente femminile: ahi, la stampa: *i carceri!). Vediamo, per sommi capi, la sua storia per capire la  “nascita” dei due generi.  Il termine carcere, dunque, indica contemporaneamente il luogo, o meglio l’edificio, ove viene scontata la pena e la pena medesima: lo hanno rinchiuso in carcere; gli hanno dato due anni di carcere. In quest’ultimo senso era molto comune, nei tempi andati, l’espressione  “carcere duro” (e ciò spiegherebbe il genere maschile) con cui veniva indicata una pena particolarmente rigorosa. Silvio Pellico, nelle  “Mie prigioni”, descrive minuziosamente questo tipo di pena: “Essere obbligato al lavoro, portare la catena ai piedi, dormire su rudi tavolacci, e mangiare il piú povero cibo immaginabile”. Da questa  espressione singolare maschile è nato il normale plurale maschile: carceri duri. Carcere, quindi, nel singolare può essere sia maschile sia femminile, in quest’ultimo caso rispetta la  “regola” dei sostantivi in  “-e” che sono, in buona parte, di genere femminile. Per concludere possiamo affermare che ‘carcere’ nel singolare è maschile se indica la pena: cinque anni di carcere; carcere preventivo; femminile se indica il luogo: una carcere fatiscente. C’è da dire, però, che nell’uso i due generi si confondono (e “confondono” i professori) con una netta prevalenza del maschile. Nel plurale sarà tassativamente femminile: le carceri. Per quanto attiene all'etimologia, diamo la "parola" a Ottorino Pianigiani, anche se ritenuto non fededegno da (quasi) tutti i linguisti.

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Sullo stesso argomento un interessantissimo articolo del prof. Salvatore Claudio Sgroi, dell'Università di Catania

BOCCIARE LA MINISTRA?


Vari amici ci hanno messo a parte di una performance linguistica della ministra della Pubblica istruzione Gelmini, ‘rea’ di aver realizzato, pur dopo qualche iniziale esitazione, la forma i carceri al posto del più corrente “le carceri”. Su Internet abbiamo quindi potuto leggere facili giudizi di condanna come “La Gelmini non sa la grammatica”, “una perla ... della Sciacquetta sgrammaticata”, “E dopo l’egìda arrivano i carceri”, ecc. C’è però da chiedersi se tali facili giudizi di condanna siano giustificati da opere istituzionali, che codificano gli usi, come i vocabolari e le grammatiche. E ancor prima dagli usi dei parlanti colti.
 Ora, il ben noto Zingarelli (2009) etichetta la voce carcere come “s.m. o (lett.) f. (pl. carceri f. o raro m., arc. † carcere f.”. La caratterizzazione è invero ineccepibile. Il femm. la carcere è ormai voce “arcaica” o “letteraria”. Il plurale corrente è le carceri. Ma il maschile i carceri è solo “raro” e non certamente sbagliato! E questo basterebbe a dimostrare l’inconsistenza del giudizio di condanna. La consultazione di altri testi sconfessa ulteriormente la condanna di cui sopra. Anche il Dardano (1980-81) riporta le due varianti: “pl. ‘le o i carceri’”. Il dizionario di T. De Mauro (Paravia 2000), ex-ministro della Pubblica istruzione colloca addirittura il plurale “i carceri” nei quadri flessionali della voce, prima de “le carceri” nella nota grammaticale (“anche femm. pl. le carceri”). Un po’ più generico, ma senz’alcuna condanna, è il Gabrielli-Hoepli 2008: “nel pl. hanno convissuto a lungo m. e f., con prevalenza recente del f.”. Più selettivo è invece il Gabrielli illustrato 1989: “Il pl. sempre f. (‘le carceri’) [...]; il m. ormai solo nella locuz. storica ‘i carceri duri’”. Stranamente restrittivo invece, ma anche qui senz’alcuna condanna, è il Garzanti - Patota 2007: “il maschile ‘i carceri’ può essere usato in riferimento a singoli edifici (‘la costruzione di due nuovi carceri’)”. Una grammatica istituzionale come quella di L. Serianni (Utet 1988 e Garzanti 1997): non esita poi a riconoscere che “l’oscillazione si mantiene anche nel plurale (dove però è più comune il femminile)”.
 Sulla codificazione del plurale, altri dizionari, va anche detto, sono invece molto restrittivi, ignorando l’uso raro "i carceri", che viene implicitamente sanzionato. Così nell’Ottocento il manzoniano Giorgini-Broglio 1870 puntualizza: “Nel plur. sempre di gen. femm.”, e il Petrocchi 1884/1887: “al pl. solam. femm.”. Nel Novecento il Diz. Enc. Ital. (1955) col LUI (1970) e col Duro (1986) all’unisono: “il plur. è di forma femm. ‘le carceri’”; il purista Palazzi 1957 col Palazzi-Folena et alii 1992: “al pl. sempre f.: le carceri”; il Treccani 2003: “pl. le carceri”. E così ancora il De Felice-Duro (19741-19932), il DISC di Sabatini-Coletti (1997-2007), il Devoto-Oli 2008.
 Ma a parte i testi di codifica, quali sono gli usi reali e concreti dei parlanti? La “Letteratura Italiana Zanichelli” (LIZ) 2001 e ora BIZ (2010), ricca di circa 1.000 testi, su 64 autori (dal ’500 al ’900), ne segnala due che adoperano il masch. pl. i carceri: T. Campanella 1622 e S. Pellico 1832 (che pure utilizza ben 32 volte “le carceri”). E possiamo ancora aggiungere, grazie al Battaglia, ancora due esempi: di G. Prati (1841-1847) e di A. Gramsci av. 1937. E nel “Sole 24 Ore”, di fronte a oltre 170 esempi al femminile, ce ne sono due al maschile di V. Branca (8.IV.90 e 26.IX.93), che non disdegna peraltro il femm.
 A volersi poi chiedere il perché del maschile il carcere e del femm. le carceri, va ricordato che il sing. la carcere oggi forma “arcaica” o “letteraria” è già documentato nel ’200, prima del maschile attestato a partire dal Trecento (per es. in Dante e Boccaccio, che avranno contribuito al successivo prevalere del maschile il carcere, senza dire del 96,4% delle parole in “-ere” di genere maschile). E se si tratta di voce ereditaria dal “lat. carcere(m)”, è bene ricordare che nel latino classico era sì maschile, ma nel latino medievale (VIII sec.) di genere femminile. Che è alla base della forma dell’it. ant., nonché dello spagnolo (la carcel c. 1140), dell’antico francese (la cartre sec. X, chartre sec. XII), del provenzale (la carce) e del catalano.




sabato 11 novembre 2017

La lingua e la Crusca

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Probabilmente siamo un po' tardi di  "comprendonio", ma proprio non riusciamo a capire il nesso tra i nuovi  "quiz", redatti dall'Accademia della Crusca in collaborazione con il quotidiano la Repubblica, e «l'Italiano, conoscere e usare una lingua formidabile», come recita il titolo dei volumi redatti dalla stessa accademia. Saremo grati a chi ci illuminerà in merito.

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Una (mezza)* mostruosità linguistica scovata in rete:

Coniugazione del verbo redarre

www.coniugazione.eu/verbo/redarre
Coniugazione del verbo redarre, indicativo, congiuntivo del verbo redarre, condizionale e participio del verbo redarre, significato del verbo redarre.
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* Mezza perché, fortunatamente, le altre voci verbali, escludendo l'infinito, sono corrette.



venerdì 10 novembre 2017

Osservazioni... (3)





AI TEMPI, ormai lontani, della scuola ci hanno insegnato (e, forse, insegnano ancora) una grande baggianata: l’aggettivo gratuito si deve pronunciare “perentoriamente” con l’accento sulla “ú” (gratúito). No, amici, questo aggettivo ha due pronunce, una alla greca e una alla latina: gratúito e gratuíto. La piú comune, però, è la prima: gratúito. Non lo sostiene l’estensore di queste noterelle, lo sostengono i sacri testi.
Sabatini Coletti: gratuito [gra-tùi-to, meno freq. …-tu-ì-…] agg.
Gabrielli: gratuito  [gra-tù-i-to] raro, poet. [gra-tu-ì-to]
Dop (Dizionario di Ortografia e di Pronunzia).

IL VERBO dire non è un verbo “tuttofare” e spesso si adopera al posto di altri verbi piú appropriati. Come sempre pilucchiamo qua e là dai vari giornali e riviste. In corsivo il verbo dire e in parentesi quello “appropriato”. Molti sono i concorrenti, disse (annunciò) il direttore, e qui disse (snocciolò) una serie di nomi; il giocatore ha avuto da dire  (un diverbio) con l’arbitro; l’imputato, interrogato dal giudice, si è detto (dichiarato, protestato) innocente; amici cari, ora vi dirò (spiattellerò) in faccia la verità; Mario ha detto (proposto) a Federico di fare una gita al mare; ti dico (assicuro),  mio caro, che le cose sono andate come ti ho detto (raccontato); il candidato, se eletto, ha detto (assicurato) che manterrà le promesse; credo che le cose siano andate in questo modo, ma non lo posso dire (affermare) con certezza; Giuseppe gli disse (confidò) in tutta segretezza ciò che aveva appreso.
 
È IMPROPRIO l’uso del termine conseguente nell’accezione di coerente e simili (anche se questo uso ha la "benedizione "di qualche vocabolario). Il vocabolo significa che vien dietro a qualcosa. Non scriveremo o diremo, quindi, sii conseguente con quello che dici ma, correttamente: sii coerente con ciò che dici.
ALCUNI ritengono i verbi  “accentare” e  “accentuare” l’uno sinonimo dell’altro e li adoperano indifferentemente. Le cose non stanno affatto cosí; facciamo, dunque, un po’ di chiarezza. Il primo (accentare) significa “mettere l’accento”: accentare i giorni della settimana; il secondo sta per “aumentare”, “mettere in evidenza”, “rendere piú marcato”: il freddo, in questi giorni, si va accentuando.  Alcuni vocabolari però...  Se amate la lingua non seguiteli.
UN GIORNALE locale titolava: “È una ragazza mezzo matta”. Perché “mezzo” e non  “mezza”? È corretto il titolo? Correttissimo, gentili amici. Mezzo, come aggettivo, concorda nel genere e nel numero con il sostantivo al quale è preposto: mezza mela; mezzi sigari; mezze pagine; mezzi fogli. Quando, invece, è posposto al sostantivo al quale è unito con la congiunzione  “e” resta invariato perché assume il valore di sostantivo con il significato di  “una metà”: due ore e mezzo, vale a dire due ore e “una metà” di un’ora; cinque chili e mezzo, cioè cinque chili e  “una metà” di un chilo. Resta altresí invariato, con valore avverbiale e significato di  “a metà”, quando è unito a un aggettivo per attenuarne il significato: ragazze  “mezzo” matte, vale a dire matte  “a metà”; la casa era  “mezzo” diroccata, cioè diroccata  “a metà”; le luci sono  “mezzo” spente, ossia spente  “a metà”; aveva gli occhi  “mezzo” chiusi, non chiusi interamente. Nell’uso, però, queste distinzioni non vengono osservate anche se è un errore (e non tutti i linguisti concordano) scrivere, per esempio, le cinque e mezza. Un plauso, quindi, al giornale che – una volta tanto – ha rispettato le leggi grammaticali lasciando mezzo invariato: ragazza  “mezzo” matta.


giovedì 9 novembre 2017

Una scoperta (quasi) "senzazionale"

Sovente veniamo accusati di "maltrattare" giornalisti e scrittori (non tutti, ovviamente) perché usano la lingua di Dante in modo errato, mettendo a repentaglio l' "incolumità linguistica" delle persone poco avvezze all'italico idioma. E a questo proposito -  navigando in rete - abbiamo fatto una scoperta (quasi) "senzazionale". Giudicate voi, amici amatori del bel parlare e del bello scrivere. Riteniamo superfluo precisare che la parola corretta è "sensazionale".

martedì 7 novembre 2017

Abbassare la buffa


Pochi, forse, conoscono questo modo di dire - per la verità relegato nella soffitta della lingua - anche se lo adoperano inconsciamente tutte le volte che si lasciano prendere dalla collera e “combattono” contro coloro che – a loro dire – sono rei di gravi offese. L’espressione è una metafora tratta dall’atto che facevano i cavalieri prima di affrontare un combattimento: abbassavano la buffa, cioè la visiera. Con la buffa calata il cavaliere si sentiva più libero, ardito e pronto a ferire e a difendersi. Il modo di dire, però, oggi ha acquisito un significato un po’ diverso: smascherarsi. Si dice, infatti, di chi a un certo punto si fa riconoscere per quello che realmente è.

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La parola proposta da questo portale e non a lemma nei vocabolari dell'uso: ossicràto. Sostantivo maschile con il quale si indica una bevanda farmacologica composta con acqua, aceto e miele.
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Errata corrige: ho fatto un po' di confusione circa il modo di dire "Abbassare la buffa". Oggi si adopera l'espressione 'ritoccata' "togliersi la buffa", vale a dire "smascherarsi", mostrarsi come si è realmente.

domenica 5 novembre 2017

I "segreti" della lingua

Cortese professore,
continui  pure con le sue "inquietanti restrizioni", non prenda in considerazione il commento del  lettore Gilberto (post "Osservazioni..." 2).  Le sue "restrizioni" hanno consentito a mio figlio, che con me segue assiduamente il suo blog, di apprendere molti "segreti" della lingua italiana e di ottenere ottimi risultati scolastici. Molti di questi  "segreti" sono riportati anche nel suo meraviglioso e istruttivo libro "Un tesoro di lingua", per questo non finirò, anzi finiremo, mai di ringraziarla. Tra i tanti "segreti" ci piacerebbe sapere perché il mezzo di trasporto pubblico, prima dell'avvento del treno e dei veicoli a motore, si chiamava "diligenza", quella, per intenderci, che si vede nei film. Grazie se questa mail avrà una risposta.
Con viva cordialità
Antonio S.
Trieste
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Gentilissimo Antonio, arrossisco e la ringrazio. Il "segreto" di cui in oggetto è stato trattato tempo fa. Le faccio il copincolla.

Vi siete mai soffermati a riflettere sul motivo per
cui la carrozza a due o più cavalli che un tempo
serviva per il regolare trasporto di persone da un
luogo all’altro si chiama (o chiamava) diligenza?
No?! Bene. Allora approfittiamone e viaggiamo
assieme, con la fantasia, sulla diligenza che ci
condurrà al mare. Durante il percorso, breve, vedremo
come è nato il nome di questa vettura che
ha sempre un suo intramontabile fascino.
Come la grande maggioranza delle parole anche
“diligenza” si rifà al padre della nostra lingua:
il latino. E dal latino “diligentia”, appunto, è
nato il termine italiano con due significati diversi
ma strettamente in rapporto tra loro (anche se,
per la verità, diligenza nel significato di “vettura”
ci è giunto dal francese “diligence”: il francese
non è figlio del latino?). Ma andiamo con ordine.
Nella prima accezione il termine diligenza ha
conservato lo stesso significato che aveva il latino
“diligentia”, vale a dire ‘cura’, ‘zelo’, ‘premura’ e
perché no? ‘fretta’. In seguito ha assunto anche
il significato di “vettura”, “carrozza”. Ma che
rapporto intercorre tra diligenza nel significato
di ‘premura’ e quello di ‘carrozza’? Un rapporto
strettissimo. In Francia, tra il Seicento e il
Settecento, si chiamò “carrosse de diligence” un
mezzo di trasporto rapido che viaggiasse con la
massima ‘premura’ (‘diligence’). Con il trascorrere
del tempo, come accade spesso in fatto di
lingua, si tralasciò “carrosse de diligence” e restò
solo ‘diligence’, donde la nostra “diligenza”.



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Ancora sulla "lingua" della stampa


E’ gravissimo il quadro che emerge dall’inchiesta della Procura di Lecce sugli abusi subiti da un’adolescente di un paese della provincia di  Lecce, che è stata recentemente allontanata dalla casa familiare per sottrarla a un clima di omertà che gli inquirenti ritengono pericoloso.

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Il periodo che avete appena letto, tratto da un articolo di un giornale in rete, contiene due errori; uno veniale (matita rossa) l'altro mortale (matita blu). Il veniale è la "e" verbo con l'apostrofo e non, correttamente, con l'accento (È); l'altro, mortale, è la collocazione del  pronome relativo, che in buona lingua italiana si riferisce sempre all'antecedente, in questo caso alla città di Lecce. Stando alla lingua, quindi, dalla casa familiare non è stata allontanata la fanciulla, ma la città di Lecce. Attendiamo, naturalmente, di essere smentiti dai soliti linguisti "d'assalto".


sabato 4 novembre 2017

La Crusca e il "web"




Repubblica e l'Accademia della Crusca presentano una nuova collana che ti farà innamorare della lingua italiana.
Dalle basi della grammatica all'italiano nell'era digitale, con tanti consigli utili per scrivere e parlare correttamente.
E, in ogni volume, una serie di giochi per metterti alla prova. Riscopri la ricchezza e la bellezza della nostra lingua.

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Onestamente non capiamo come facciamo a riscoprire la bellezza della nostra lingua se la difensora dell'italico idioma continua a proporre dei "quiz" sulla conoscenza della lingua della perfida Albione. Si clicchi qui.

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La parola (non attestata nei vocabolari dell'uso) che proponiamo è: paffa (minestra). Di qui paffuto. In senso figurato "fa la paffa" colui che conduce una vita agiata e oziosa.



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La "lingua" della stampa


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Ciuffeche, non cioffeche, sostantivo femminile (di ambito regionale). Si veda qui e qui.


venerdì 3 novembre 2017

Sgroi - Papa Francesco onomaturgo italofono 'ispirato' dallo spagnolo



Un articolo del prof. Salvatore Claudio Sgroi, dell'Università di Catania, pubblicato sul sito dell'Accademia della Crusca.






«'I Re Magi erano "nostalgiosi" di Dio': il Papa conia un nuovo neologismo» ‒ è il titolo di un intervento on line della giornalista Franca Giansoldati. Nell'omelia per la festa dell'Epifania (6.I.2017) Papa Francesco si è infatti così espresso:

 "il credente nostalgioso spinto dalla sua fede va in cerca di Dio come i magi nei luoghi più reconditi della storia perché sa in cor suo che là l'aspetta il Signore".

 Un'occasione ghiotta anche per "Il Messaggero.it" e il "Corriere TV Roma" per sottolineare che il Papa "conia il termine nostalgioso", ovvero che "dopo petaloso arriva il nuovo termine".

Il rapporto così tra la nozione di "coniazione", "neologismo" e petaloso suggerito per il termine di Bergoglio nostalgioso è invero fuorviante. Si suggerisce infatti che, -- dopo il, anzi, a seguito del neologismo-conio petaloso da parte del bambino italiano, che ha chiesto un parere all’Accademia della Crusca con grande eco mediatica, -- anche il Papa avrebbe formato da nostalgia l'aggettivo denominale nostalgioso. Il tutto secondo una regola di derivazione assai vitale in italiano, ricco al riguardo di un migliaio di derivati in -oso (es. annoso, famoso, fascinoso ecc.) con le varianti -uoso (es. talentuoso, affettuoso, fruttuoso) e -ioso (bilioso, grandioso, licenzioso).

In realtà, però l'agg. nostalgioso esisteva (prima che in italiano) già in spagnolo. Con il significato di 'nostalgico', anzi come sua variante. La conferma non viene dalla consultazione dei dizionari bilingui spagnolo-italiano (Zanichelli 2012, Hoepli 2009, Garzanti 2009). E neanche dai monolingui spagnoli a partire dallo stesso Diccionario de la Real Academia Española (DRAE 2014), o dal Gran Diccionario de uso del Español actual (GDUEA 2001) o dalla Moliner (1966-67). La conferma ci viene invece dal Diccionario del español actual di Seco - Andrés - Ramos (2011), che documenta l'aggettivo come "raro" e come variante di nostálgico, con due ess.: (i) "nostalgiosa seguridad" di Zunzunegui del 1956; e (ii) "alma nostalgiosa" in Abc 12.5.93.

Il ricorso a Internet consente di identificare altri due ess.: (i) del 1957 "Será, tal vez, que lo nostalgioso no nos resulta constructivo" (in Dinámica social) e (ii) del 2005 "un folklore tradicional, telurista, descriptivo y nostalgioso" (in Studi latinoamericani).

Ma già nel 1938 il termine appariva in Ecuador, sdoganato da Justino Cornejo Fuera del diccionario:

"El Diccionario no trae sino nostálgico-a [...]. Mas, existe, autorizado por el uso, estotro adjetivo, homólogo del anterior: nostalgioso-a".

In Cile lo documenta Charles Emil Kany 1962 (in Semántica hispanoamericana): "nostalgioso (Chile) 'nostálgico', como me 'parecía nostalgioso del mar' (Azocar)".

La documentazione più ampia è poi quella del Corpus del Español del Siglo XXI, che fornisce ben 9 ess. tra il 2003 e il 2009. Di cui 6 nell'Argentina di Bergoglio: (i) "Nostalgioso. Hablaba de fútbol"; (ii) "Ahora quedamos nostalgiosas"; (iii) "TV nostalgiosa"; (iv) "pizzas nostalgiosas"; (v) "un peludo nostalgioso de aquellos años"; (vi) "un fino repertorio, muy nostalgioso"). Uno in Bolivia: "hacer empanadas nostalgiosas y tristes". E 2 in Colombia: "ya estoy nostalgiosa", con il significativo commento metalinguistico: "De esa escena me queda el adjetivo nostalgiosa, en lugar de nostálgica. No será castizo pero suena lindo".

Morale della favola. L'agg. nostalgioso adoperato dal Papa è sì un "neologismo" in italiano, ma non in quanto "conio" o sua "neoformazione", ma in quanto prestito o dono dello spagnolo d'America in seguito a transfert.

Un transfert strutturalmente compatibile in italiano, che condivide con lo spagnolo la formazione di suffissati in -oso (cfr. preci-oso, malici-oso, peligr-oso, dud-oso, afect-uoso, ecc.).

Si potrebbe anche dire che in italiano, prima dell'uso del Papa, nostalgioso esisteva potenzialmente, nel sistema, in virtù della regola di derivazione condivisa con lo spagnolo, ma è grazie all'uso di papa Francesco, che si è realizzato in italiano, diventando quindi, come direbbe Eugenio Coseriu, "norma" e con un avvenire assai promettente dinanzi a sé grazie al prestigio del Sommo Locutore.





giovedì 2 novembre 2017

Osservazioni... (2)



I GRAMMATICI usano dividere le sillabe in “aperte” quando finiscono con una vocale: ma-re; te-so-ro e in “chiuse” quando, invece, finiscono con una consonante: al-cher-mes. Una parola può essere costituita, quindi, di tutte sillabe aperte o di tutte sillabe chiuse; la maggior parte dei vocaboli, però, è composta di sillabe che chiameremo “miste” (aperte e chiuse): bab-bo; sin-da-co; mam-ma; sol-do. A questo punto il discorso ci porta a spendere due… parole sulla divisione delle sillabe in fin di riga (o di rigo); come si va “a capo”, insomma, con le parole formate con prefissi “speciali”: ben-, in-, mal-, cis-, dis-, pos-, trans- o tras-. Le parole così composte possono dividersi in sillaba senza tener conto del prefisso (che fa sillaba a sé) oppure considerare il prefisso parte integrante della parola. Ci spieghiamo meglio con un esempio. Dispiacere si può dividere considerando il prefisso sillaba a sé; avremo, quindi, dis-pia-ce-re, oppure, “normalmente”, di-spia-ce-re. Trastevere – altro esempio – si può dividere secondo l’una o l’altra “regola”: Tras-te-ve-re o Tra-ste-ve-re. Consigliamo vivamente, a coloro che non sono in grado di distinguere con assoluta certezza i prefissi componenti, di attenersi – nell’andare “a capo” – alla normale divisione sillabica. Eviteranno, in questo modo, di incorrere in spiacevoli strafalcioni. In caso di dubbio si può consultare una buona grammatica dove, nel “sillabo”, sono riportati tutti gli argomenti trattati, messi anche in ordine alfabetico.


STUPISCE il constatare che molte persone confondono la preposizione con la proposizione, ritengono, cioè, i due termini l’uno sinonimo dell’altro. Vediamo, quindi – sia pure per sommi capi – che cosa è la “proposizione” (con la “o”). Ce lo dice la stessa parola latina dalla quale deriva (“propositio”, ‘cosa proposta’ alla considerazione, alla discussione e, per tanto, “argomento”, “concetto”) vale a dire “gruppo di parole unito a un verbo che esprima un pensiero riguardo a un dato argomento”, insomma una frase: Giovanni legge attentamente; Paolo rimira le stelle; Giuliano risolve i cruciverba. In tutti questi esempi ogni parola è unita a un verbo e forma, o meglio esprime un concetto “proposto” (‘proposizione’) alla nostra attenzione. Gli “ingredienti” essenziali di una proposizione sono il soggetto e il verbo, senza quest’ultimo, anzi, non si ha alcuna proposizione in quanto il gruppo di parole risulterebbe “slegato”. Ma cos’è il soggetto, elemento “principe” – dopo il verbo – di una proposizione? Semplicissimo: è la persona, l’animale o la cosa di cui si parla. Viene dal latino “subiectus” ed è l’elemento “sottoposto” a un giudizio, vale a dire – per usare le parole del linguista Francesco Ugolini – “il termine di cui si afferma una maniera d’essere o d’agire”. Negli esempi sopra riportati “affermiamo” che Giovanni legge attentamente, che Paolo rimira le stelle e che Giuliano risolve i cruciverba; Giovanni, Paolo e Giuliano sono, per tanto, “elementi sottoposti” a una nostra considerazione. Attenzione, quindi, non si confonda la “preposizione” con la “proposizione”: il figlio di un nostro conoscente ha scritto – in un compito in classe – che trovava “difficoltoso riconoscere i vari complementi contenuti in una preposizione”. Riteniamo superfluo riportare il giudizio negativo dell’insegnante, fortunatamente di quelli con la “i” maiuscola. E visto che siamo in tema di proposizioni evitate – se desiderate scrivere forbitamente – di adoperare l’avverbio “onde” seguito da un infinito (anche se usato da “firme eccellenti”): ti scrivo onde avvertirti del mio arrivo. Si dirà, correttamente, ti scrivo “per” avvertirti del mio arrivo. Sí, siamo caduti nella pedanteria, ma non importa. Onde, è bene ricordarlo, è un avverbio di luogo, precisamente di moto da luogo, è il latino “unde” e vale “da dove”; non ci sembra corretto adoperarlo, quindi, per introdurre una proposizione finale o causale. Non è, insomma, una parolina ‘multiuso’ anche se molte cosí dette grandi firme non si fanno scrupolo alcuno dell’uso improprio. Abbiamo sempre detto, infatti, che non tutti gli scrittori sono linguisti e che non tutti i giornalisti sanno adoperare la lingua a dovere. Voi, amici, seguite chi volete; se desiderate, però, scrivere (e parlare) correttamente diffidate di queste “firme illustri”.



DORMENTE e dormiente sono entrambe le forme del participio presente del verbo dormire e, in quanto tali, si possono adoperare indifferentemente. La prima forma è quella piú comune e "piú regolare" perché segue la "regola" del paradigma dei verbi della III coniugazione che formano il participio presente aggiungendo al tema la desinenza "-ente": "dorm" (tema), "-ente" (desinenza). La seconda rispecchia la forma latina, cioè "dormiens, dormientis": dormiente(m). Nell'uso, però, si tende ad adoperare la forma latineggiante (dormiente) in funzione di sostantivo: il dormiente, i dormienti.

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La parola proposta da questo portale e non a lemma nei vocabolari dell'uso:  ferraguto.  Aggettivo  sostantivato  che sta per  "ladro di campagna".