martedì 31 ottobre 2017

Modi di dire poco conosciuti


Aspettare il porco alla quercia
Chi aspetta il porco alla quercia?, come recita il modo di dire che avete appena letto. Colui che aspetta l’occasione buona per fare qualcosa, in particolare per vendicarsi di qualcuno, partendo dal presupposto che l’occasione prima o poi arriverà. E il maiale che cosa c’entra? L’immagine è quella della persona che sta vicino a una quercia aspettando il porco, che arriverà certamente perché ghiottissimo di ghiande.


Levare il vino dai fiaschi

Quest’espressione viene adoperata, ovviamente in senso figurato, quando si invita una persona a fare chiarezza su una questione rimasta in sospeso o a “prendere di petto” e definitivamente una situazione in modo da concluderla. Il modo di dire fa riferimento al vino perché la qualità si verifica solo al momento in cui si toglie dal fiasco e si consuma.
Passare in razza
Chi passa in razza? Colui (o colei) che riceve una carica puramente onorifica ma che in realtà comporta le “dimissioni” da incarichi importanti espletati fino a quel momento. Il modo di dire si rifà al trattamento riservato agli animali da competizione, soprattutto cavalli e cani: alla fine della “carriera” sportiva vengono adibiti esclusivamente alla riproduzione.
Fare come quello che portò il cacio al padrone
Questo modo di dire, di uso raro e probabilmente poco conosciuto, si riferisce a una persona che elargisce regali a destra e a manca ma, in seguito, se li riprende in altra forma. L’espressione è tratta da un racconto di origine popolare. Un contadino andò a far visita al padrone del podere portandogli in dono una forma di formaggio. Apprezzando molto il pensiero, l’uomo invitò il contadino a fare uno spuntino con il suo stesso formaggio; quest’ultimo, con mille ringraziamenti e salamelecchi, se lo finí tutto.


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Ecco una parola che ci piacerebbe fosse rispolverata e rimessa a lemma nei vocabolari dell'uso: infrunito.  Aggettivo che sta per dissennato, stolto e simili.

lunedì 30 ottobre 2017

Al riparo "di" o al riparo "da"?




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A nostro avviso il titolo in oggetto contiene due errori: uno "veniale" (matita rossa) l'altro "mortale" (matita blu). Il veniale è l'univerbazione di "malagestione", che significa - come si sa - 'cattiva gestione'. La grafia da preferire, per tanto, è quella analitica (scissa) perché "mala" è il femminile singolare dell'aggettivo "malo" (cattivo, riprovevole): mala (cattiva) gestione. Qualcuno scriverebbe "cattivagestione"? L'errore mortale è l'uso della preposizione "di" (del) preceduta dal sostantivo riparo; la preposizione corretta è "da" (dal) perché si è al riparo "da qualcosa", non "di qualcosa".  Sembra che i vocabolari ci diano ragione. Un dubbio: i titolisti, forse, con la locuzione "al riparo del" intendevano dire "protetta dal" suo statuto speciale? Se è cosí hanno scritto - secondo la lingua italiana - tutto il contrario.

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Due le parole che proponiamo, una - ripresa dal Treccani - è precone e sta per "banditore", l'altra, non a lemma nei vocabolari dell'uso, è cinquantare, vale a dire "esagerare".

domenica 29 ottobre 2017

Osservazioni...


DUE PAROLE, due, sull’uso di un aggettivo che a nostro modo di vedere molto spesso viene adoperato a sproposito: nutrito. Questo aggettivo, dunque, è il participio passato del verbo “nutrire” e significa ‘pasciuto’,‘robusto’,‘ben nutrito’ e simili: è un ragazzo ‘nutrito’, cioè pasciuto. Molto spesso si usa, invece, con un significato che non ha: ‘caloroso’, ‘forte’, ‘insistente’, ‘scrosciante’ e simili: la cantante è stata accolta con un nutrito applauso. Quest’uso, se non scorretto, ci sembra, per lo meno, ridicolo. Gli applausi possono essere ‘nutriti’, cioè pasciuti, robusti? Certamente no. Chi ama il bel parlare e il bello scrivere ha altri aggettivi che fanno alla bisogna in casi del genere: caloroso, lungo, forte, fragoroso, scrosciante, incessante ecc.

ANCORA una volta ci preme ricordare che il verbo “arricchire” si costruisce con le preposizioni “di” o “con”. I “dicitori” dei notiziari radiotelevisivi, imperterriti, continuano a utilizzare la preposizione “da”, che, ripetiamo, è scorretta inducendo, quindi, in errore gli ascoltatori sprovveduti in fatto di lingua.

IN PRESENZA DI è un'espressione non molto corretta se chi parla o scrive non si riferisce a persone. Spesso ci capita di leggere sulla stampa frasi tipo "Tizio è stato condannato in presenza delle prove acquisite.

ANURIA e ANURÍA. Si presti attenzione a questi due sostantivi perché non sono sinonimi ma cambiano di significato a seconda dell'accentazione. Quando l'accento cade sulla "u" il termine indica un arresto della secrezione urinaria: quel paziente è affetto da anuria; se, invece, l'accento cade sulla "i" il vocabolo designa la mancanza di coda in un animale.

MAI. Avverbio di tempo con due accezioni distinte: qualche volta (una volta) e nessuna volta.  Quando sta per una volta non richiede la negazione non: dicesse mai (una volta) la verità. Deve essere necessariamente preceduto dalla negazione (non) quando vale nessuna volta: non l'ho mai incontrato; nell'uso corrente si tende a omettere il "non": mai incontrato, meglio non l'ho mai incontrato.

venerdì 27 ottobre 2017

Gli italiani e gli errori grammaticali piú comuni

In occasione della Settimana della lingua italiana nel mondo, ecco gli errori più comuni che si commettono quando non si utilizza nel modo opportuno la lingua italiana… (si clicchi qui).

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Due parole, due, sull'avverbio "invece", che si può scrivere in grafia analitica  (in vece) e in grafia univerbata (invece), naturalmente non a caso. In  grafia scissa quando l'avverbio in questione assume il significato di "in luogo di", "al posto di": alla cerimonia era presente l'assessore alla cultura in vece (al posto) del sindaco. In grafia univerbata se l'avverbio ha il significato di "al contrario", "all'opposto" e simili: sembrava un galantuomo, invece si è rivelato un mascalzone. Nell'uso corrente è spesso rafforzato dalle congiunzioni "ma" o "mentre": ha detto di essere uscito, mentre invece è rimasto tutto il giorno chiuso in casa. È un uso prettamente familiare che - in buona lingua italiana - è meglio evitare.


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Le nuove domande redatte dall'Accademia della Crusca: servono a farci "innamorare della nostra lingua"?

giovedì 26 ottobre 2017

Verbi: inergativi e inaccusativi


Gentile dott. Fausto Raso,

anch'io, come il lettore di Crotone, ho scaricato da Internet il suo meraviglioso libro (peccato che non sia in commercio) dal quale sto apprendendo molte "curiosità linguistico-grammaticali" non riportate nei libri di lingua in mio possesso. La sua fatica, quindi,  è veramente encomiabile. Dirle grazie è poco. Ho visto che risponde ai quesiti posti dai lettori. Ne approfitto anch'io. Sull'autobus, mentre mi recavo in ufficio, alcuni studenti stavano ripassando le lezioni e parlavano di verbi "inergativi" e "inaccusativi". Confesso, non ho mai sentito, quando andavo a scuola, questi termini. Può, cortesemente, dirmi di che genere di verbi si tratta?

La ringrazio anticipatamente e le porgo i miei più cordiali saluti.

Osvaldo P.

Trento

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Cortese Osvaldo, la ringrazio per le sue belle parole. Quanto al suo quesito, le faccio "rispondere" dagli esperti dell'enciclopedia Treccani che saranno, senza alcun dubbio, piú chiari ed esaustivi di quanto possa essere il sottoscritto.



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Ancora sulla "lingua" della stampa




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"Fila" questo titolo? Ha un senso? Rispetta le regole grammaticali? Il verbo in parentesi è come se non ci fosse, la frase, per tanto, risulta sgrammaticata: Viaggio negli spot che offendere tutti. Attendiamo, naturalmente, che qualcuno ci  "sbugiardi".


mercoledì 25 ottobre 2017

Sgroi - Il plurale di "fondovalle"? Uno psicodramma...



Alcune persone hanno chiesto alla consulenza linguistica della Crusca quale è il plurale corretto di "fondovalle".
Ha risposto il prof. Salvatore Claudio Sgroi, in un articolo pubblicato su "La Crusca per voi".


1. Pluri-richiesta


Il quesito intriga ben 6 lettori con domande in parte diverse, tra il descrittivista e la richiesta scopertamente normativista.

"Qual'è?"/"qual è?" il plurale del composto chiedono Luca Gemignani di Torre del Lago (LU) e Roberto Burini di Bergamo; e con preoccupazione normativista: quale "la forma corretta"? (Maurizio Bruno di Torino) o il plurale "corretto"? (Giorgio Bernardi di Cuneo, Nicola Gabellieri di Volterra, Anna Rita di Cerbo di Rho).


1.1. Presupposizioni (diverse)

 Faccio una premessa. Il parlante che (si) chiede se si dice "in questo o in quel modo?", muove da una presupposizione, ovvero che delle due alternative che si pone, solo una è/sia corretta. Il dubbio è vissuto quasi con un 'senso di colpa'. Propongo invece di muovere da un'altra presupposizione: eliminare i 'sensi di colpa' e ipotizzare che le due alternative siano indizio di ricchezza, generate da due diverse regole, che si tratta in primo luogo di individuare. Il parlante poi sceglierà (normativamente) l'alternativa che riterrà più opportuna sulla base di due criteri:

a) scegliere la forma non ambigua,

b) scegliere quella dei parlanti colti o mediamente colti,

c) scartare invece la forma non-ambigua ma tipica dei parlanti popolari, incolti o semi-colti.

Se invece, per individuare la forma più adeguata, si vuole affidare ai testi "istituzionali" della norma linguistica, quali sono i dizionari, ebbene accetti le loro indicazioni. E se i dizionari indicano non una ma più norme, vuol dire che vanno entrambe bene. Non pretenda che la forma "corretta" sia solo una, "unanimamente riconosciuta", come vorrebbe la lettrice Anna Rita Di Cerbo. Le lingue sono al servizio della "massa parlante" e sono quindi per natura multiformi per poterne soddisfare gli infiniti bisogni espressivo-comunicativi e stilistici.


2. Le 4 possibili pluralizzazioni del composto


Per quanto riguarda il composto (bi)nominale fondovalle, "Nome + nome", esso presenta quattro possibilità teoriche, astratte di pluralizzazione: o

(i) resta invar. nei due costituenti (i fondovalle), o

(ii) varia solo nel primo (i fondivalle), o

(iii) varia solo nel secondo (i fondovalli), o

(iv) varia in entrambi (i fondivalli).

Tre dei sei lettori dichiarano di aver consultato più dizionari trovando risposte diverse. Una ricerca ammirevole è quella di Anna Rita Di Cerbo che ha compulsato ben 8 dizionari: Garzanti 2009 e on-line, Hoepli on line, il nuovo De Mauro on line, Sabatini-Coletti on line, Treccani on-line, Devoto-Oli 1981, Collins-Dini 1998. N. Gabellieri ha consultato la Treccani e Garzanti, Roberto Buri "alcuni dizionari" non meglio identificati.


2.1. Solo 2 pluralizzazioni documentate nei dizionari


Delle 4 possibilità teoriche di pluralizzazione, quelle documentate nei dizionari sono solo due:

(i) la forma invariabile nei due costituenti (i fondovalle), in Garzanti e Sabatini-Coletti e

 (ii) variabile solo nel primo (i fondivalle), in Treccani, Devoto-Oli, Hoepli; ma anche in Garzanti e (aggiungo io) nel De Mauro 2000 cartaceo.

Questa variabilità ha messo "in agitazione" i nostri lettori. "Che pesci pigliare?", si sono chiesti. Tutte e due le soluzioni sono ‒ direi io ‒ "corrette" in quanto garantite dai dizionari. Il lettore sceglierà quella che preferisce. Pretendere di trovare una sola e stessa risposta, significherebbe pretendere ‒ irrealisticamente ‒ che la lingua sia monolitica. La variatio è costituzionale nella lingua e quella che caratterizza i parlanti colti è corretta.

Così la lettrice Anna Rita Di Cerbo, che "dopo anni che us[a] “fondivalle” come plurale, nell'ambito della [...] attività formativa e professionale scientifica", non deve, a mio giudizio, "convertir[si] a “fondovalle” per utilizzare un termine linguisticamente corretto"; può invece benissimo andare "avanti così" con il non meno corretto i fondivalle, garantito da ben sei dizionari, e considerare "risolto il caso".

Nicola Gabellieri scriva pure da parte sua il suo "articolo sulla coltivazione dei fondovalle nel XX secolo".

Maurizio Bruno e il suo amico non "litighino" perché hanno entrambi "ragione".


2.1.1. Il perché delle due pluralizzazioni dizionaristiche


Il lettore, avendo soddisfatto la sua (legittima) "pulsione" normativa, può a questo punto porsi anche domande più complesse sul perché di quelle due regole, e sul funzionamento strutturale dell'italiano. La teoria è in realtà problematica, data anche la variabilità dei comportamenti linguistici dei parlanti riguardo al plurale dei composti. Il criterio più pertinente e decisivo nella grammatica dei composti è, direi, quello semantico della "Testa".


2.1.2. La "testa" del composto. Ce l'ha? E dov'è?


La regola "naturale" nei composti (bi)nominali è che vari solo la "Testa" del composto. Che cos'è la "Testa"?; la "Testa" di "Fondovalle" si identifica rispondendo alla domanda: "Il Fondovalle è un "fondo" o è una "valle"? Chiaramente non si tratta di una "valle" ma del "Fondo (di una valle)". "Fondo è quindi la Testa"; il composto è sintatticamente un composto "endocentrico" con testa tipicamente a sinistra. E infatti il plurale (naturale) per molti parlanti è "i Fondivalle".

La conseguenza e la conferma di ciò è che il genere grammaticale delle Testa (qui fondo s.m) si trasferisce (ovvero con l'anglo-tecnicismo "percola") a tutto il composto, che è infatti s.m. (e non già s.f. *la fondoValle).

Il plur. i Fondivalle è trasparente avendo il valore di "i Fondi della valle", il composto essendo sintatticamente un composto con valore subordinativo quanto al determinante "(della) valle". Non è un caso che tale plurale è quello presente in tutti i dizionari.


2.1.2.1. La variante invar. i Fondovalle  minoritaria


La variante invar. i Fondovalle è decisamente minoritaria, ignorata in 6 dizz. su 8; solo il Garzanti indica le due possibilità. E quasi paradossalmente è la sola forma indicata nel Sabatini-Coletti. Strutturalmente i fondovalle invariabile suggerisce che si tratta di un composto senza Testa, come dire il fondovalle è "lo spazio che si trova 'al fondo della valle ". Cfr. "la coltivazione dei fondovalle nel XIX secolo" del lettore Nicola Gabellieri.

In altri composti fondo è invero ciò che è 'in fondo a', così il fondo schiena indica 'la parte del corpo che si trova in fondo alla schiena', ovvero 'il sedere', plur. invar. i fondoschiena.

In altri composti con fondo- quali i fondocampo e i fondotinta la possibile oscillazione nel plur. si può interpretare come dovuta a tale oscillazione nella identificazione della testa del composto: o senza testa (e quindi invar.) o con testa (e quindi variabile).


2.1.2.2. Altre due pluralizzazioni: (iii) i fondovalli e (iv) i fondivalli

 Quanto agli altri due possibili plurali (iii) i fondovalli con variazione del solo secondo costituente e (iv) i fondivalli con variazione di entrambi i costituenti, non documentati nella lessicografia, la lacuna lessicografica è colmabile ormai con Google ricerca avanzata. La quale consente di stabilire la seguente classifica di vitalità, sulla scorta del numero delle attestazioni nell'arco temporale 1900-2017 ("Google libri, Ricerca avanzata", del 6 febb. 2017):

 (I)  ‒ ‒ i fondovalle 1900-2017: 44 attest.; (II) + ‒ i fondivalle 1900-2017: 28 attestazioni; (III) ‒ + i fondovalli 1900-2017: 25 attest.; (IV) ++ i fondivalli 1900-2017: 19 attest.

Il composto (iii) i fondovalli con variazione del solo determinante a destra, rivela che si è opacizzato morfologicamente, si è fossilizzato, diventando  uno dei tanti lessemi in -e, con pl. quindi in /-i/. Analogo processo ha riguardato per es. il composto palcoscenico pl. palcoscenic-i (piuttosto che palchiscenici) (cfr. Sgroi 2012).

Il composto (iv) i fondivalli, con entrambi i costituenti variabili, sta a indicare che il determinante a destra, nome subordinato ("della valle"), è interpretato come agg. di relazione ("della valle" = "vallivo") e quindi è fatto variare al plurale in parallelo con la testa: "i fondi (delle) valli" ovvero "i fondi valli" o "fondi vallivi".


3. Retrodatazioni

 Google libri consente altresì di retrodatare il s. fondovalle dal 1929 (nel DELI e nel Battaglia) al 1875: "anche a Vayes il riparo sottoroccia si trovava probabilmente prospicente ad un fondovalle in queste condizioni" (Bullettino di paletnologia italiana, vol. 23, p. 109).


4. Per saperne di più

 Ma la tipologia dei composti è notevole e per conseguenza variabile la pluralizzazione, in dipendenza dell'interpretazione del parlante. La Nuova Grammatica italiana di G. Salvi - L. Vanelli (2004) risponde in maniera soddisfacente a tale problema. Il lettore più esigente si rifarà naturalmente al trattato istituzionale sul tema: La formazione delle parole in italiano, a cura di M. Grossmann - F. Rainer (2004).

martedì 24 ottobre 2017

Una "trappola linguistica"


Cortese dr. Raso,

ho appena scaricato dalla rete il suo prezioso libro "Un tesoro di lingua", segnalatomi da un amico assieme al suo meraviglioso blog. Voglio ringraziare l'Editore che, generosamente, lo ha messo in "circolazione" gratuitamente. "Spulciando" nel suo sito mi sono imbattuto in un suo vecchio post dove lei sostiene che il prefisso “intra” non richiede il cosiddetto raddoppiamento sintattico e porta l’esempio del verbo “intravedere”: io intravedo, non “intravvedo”. Come la mettiamo, allora, con “intrattenere”, “intrappolare”, “intrapporre”, “intrallazzo” e altri vocaboli che ora non mi sovvengono, tutti, ‘rigorosamente’,  con la consonante raddoppiata?
Cordiali saluti

Raimondo B.

Crotone

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Cortese amico, non lo sostengo io, ma la “legge” grammaticale. Quanto agli esempi che lei riporta sono tutti vocaboli che non hanno nulla che vedere con il prefisso “intra-”, etimologicamente assente. Andiamo con ordine. “Intrattenere” è composto  con il prefisso “in-” e il verbo “trattenere” (quindi: intrattenere); lo stesso discorso per “intrappolare” essendo formato con “in-” e il sostantivo “trappola” (intrappolare). Per quanto riguarda “intrapporre”, anche se riportato da alcuni vocabolari, è voce tollerata perché è un rifacimento di “interporre” con cambio di prefisso; la grafia corretta resta “intraporre”. “Intrallazzo”, infine, è un neologismo tratto dalla voce dialettale siciliana “intirilazzu” o “ntrallazzu”, anche se si può risalire al latino “inter” (tra) e “laqueus” (laccio) e in quest’ultimo caso il raddoppio della “l” si spiegherebbe con il fatto che la pronuncia meridionale tende al raddoppiamento delle consonanti, al contrario di quella settentrionale, veneta in particolare. Veda la voce nel vocabolario Treccani in rete.


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RELATIVAMENTE - avverbio che vale "parzialmente", "in modo relativo", non ci sembra corretto farlo seguire dalla preposizione "a" dandogli il significato di "in quanto a", "rispetto a", "per quello che riguarda" e simili: relativamente alla sua richiesta la informiamo che...



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LO SAPEVATE che chi suona l'arpa o un qualsivoglia strumento a corda è un... ladro? Scherziamo, ovviamente. Arpeggiare, apprendiamo dal vocabolario De Mauro in rete, significa anche "rubare".

lunedì 23 ottobre 2017

Far la pace di Marcone


Questa locuzione - probabilmente sconosciuta ai piú - si adopera quando si vuole mettere in evidenza il carattere iracondo di una persona, che si cruccia per un nonnulla e subito dopo è pronta a far la pace, ma è una pace di brevissima durata perché  dopo... ricomincia. Sull'origine di questo modo di dire si narrano molte storielle antiche, di autori popolari, quindi... sconosciuti; ne riportiamo alcune, tra le quali la prima ci sembra la "piú verosimile". Marcone fu un plebeo di carattere bestiale e bizzarro, però di cuore non duro. Quando una cosa gli andava a traverso se la prendeva con la moglie; ma passato l'impeto tornava in sé. Taroccava e bastonava la moglie; e poi la pettinava. Il giorno appresso tornava a far lo stesso; e il vicinato che assisteva a queste scene lo messe in proverbio: la pace non cementata dall'affetto e dal pentimento sincero è la pace di Marcone. Voi, amici, nel corso della vostra vita in quanti "Marconi" vi siete imbattuti? La seconda storiella - che riteniamo interessante - narra di un tale Marcone che, fieramente sdegnato, voleva vendicarsi contro uno che lo aveva offeso.  Intromessisi gli amici, disse di far pace, e quelli gli credettero.  Venuto il nemico per dare e ricevere il bacio, la fiera di Marcone gli staccò il naso netto con un morso. L'ultima  - che abbiamo scelto - parla di uno scimunito di un villaggio della Toscana, certo Marcone. Qui essendo alcune private inimicizie, il Pievano (il pievano, popolarmente detto "piovano" è il prete rettore di una pieve, il cui termine - manco a dirlo - discende dal latino "plebs, plebis", popolo e, nel tempo, ha dato origine a denominazioni toponomastiche, come, per esempio, Pieve di Cadore) volle adoperarsi a mettere pace fra le parti, e preparò la predica in forma sulla pace. Fra i molti temi volle figurasse questo: che anche le persone sciocche amano di stare in pace col prossimo; e perché l'argomento non patisse eccezione, e facesse l'effetto suo in modo sorprendente, chiamò a sé Marcone, e segretamente gli disse che avrebbe fatto la domenica appresso una predica cosí cosí, e che a un certo punto gli avrebbe detto: "E tu, Marcone, che vuoi? Rispondi franco, la pace, la pace". Fecero le prove, e la cosa parve dovesse riuscire a meraviglia. Venuta la domenica, e andato in chiesa tutto il villaggio, il buon Pievano attaccò a predicare, e via via accalorandosi quando venne al forte argomento, il quale dovea, come si dice, tagliar la testa al toro, a voce altitonante esclamò "e tu Marcone, che vuoi?". Marcone sgaziatamente sonnecchiava. Si riscuote a quel grido, e tutto insonnolito non risponde "pace pace", ma una parolaccia strana che fece sganasciar dalle risa tutto il popolo. Cosí la pace di Marcone andò in proverbio, per pace ridicola, che non ha fondamento sodo; e anche per la pace di chi non si dà un pensiero al mondo; vive e lascia vivere. Troviamo questo modo di dire anche in una novella aggiuntiva alle "Cene" del Lasca (pseudonimo dello scrittore Anton Francesco Grazzini, uno dei fondatori dell'Accademia della Crusca): "Marco e la moglie, fatto prima la pace di Marcone, dormirono per ristoro della passata notte, insino a nona, ecc.".

domenica 22 ottobre 2017

Perché cagna e non "cana"?


Paolo D'Achille spiega, in questo magistrale articolo, perché il femminile di cane è cagna e non come sarebbe logico, cana. Da gatto abbiamo, infatti, gatta; da cavallo / cavalla; da asino / asina...
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La parola proposta da questo portale: fagnone.  Aggettivo  - relegato nella soffitta della lingua -  che ci piacerebbe fosse "rispolverato".  Sta per astuto, scaltro e simili. Si veda qui, qui e qui.

sabato 21 ottobre 2017

La Crusca e i dialetti


Premessa: i dialetti sono importanti, non c'è dubbio, perché fanno parte della nostra cultura. Non comprendiamo, però, la scelta dell'Accademia della Crusca, in collaborazione con il quotidiano la Repubblica, di farne un "test" da sottoporre ai lettori. C'è gente che "mastica" poco la lingua nazionale, e la conferma è data  dalle varie inchieste e servizi che, di tanto in tanto, le televisioni propongono sull'argomento (scarsa conoscenza dell'uso corretto dei verbi, confusione tra un avverbio e un aggettivo, per non parlare del famoso "periodo ipotetico"). Un "quiz" sui dialetti non compromette  maggiormente la conoscenza della lingua italiana?
Ecco le domande sui dialetti.

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PARTITA – è improprio l’uso di questo sostantivo nell’accezione di  gita, svago, festa e simili. Il cacciatore non va a una partita di caccia, bensì a una gita di caccia. Il termine è adoperato correttamente solo nel significato di gioco (a carte, a pallone, a bocce, ecc.) dove i giocatori sono distribuiti tanti per parte (partita, appunto).

MOLTO spesso adoperando la locuzione “essere cosciente” siamo assaliti da un dubbio amletico: si fa seguire dalla  preposizione “di” o dalla congiunzione “che”? ‘Sono cosciente “di”...’ o ‘Sono cosciente “che”...’? Quest’espressione - togliamoci subito il dubbio -  si costruisce con la preposizione “di”, non con la congiunzione “che”: Giovanni era cosciente “di” avere sbagliato la strada; non “che” aveva sbagliato la strada. Si può ovviare al dubbio sull’impiego della preposizione o della congiunzione ricorrendo alla locuzione essere cosciente del fatto che: Giovanni era cosciente del fatto che aveva sbagliato la strada. Lo stesso discorso per quanto attiene a “essere consapevole”.



DUE PAROLE sull’uso “distorto” - a nostro modo di vedere - di un verbo: portare. Alcuni lo adoperano nella forma intransitiva pronominale (portarsi) - con l’avallo di buona parte dei vocabolari - nel significato di “andare”, “trasferirsi”, “recarsi”, “spostarsi” e simili: i passeggeri “si portino” tutti vicino all’uscita; subito dopo l’incidente i soccorritori “si sono portati” sul luogo del sinistro. A nostro avviso quest’uso ci sembra se non scorretto o improprio... ridicolo. Consigliamo agli amatori della lingua di astenersi da quest’uso “distorto”.



SI PRESTI attenzione all’uso corretto dei  verbi rabboccare e riboccare perché molto spesso vengono considerati l’uno sinonimo dell’altro. Cosí non è. Il primo, transitivo, significa “aggiungere liquido” fino a colmare il recipiente: l’otre non è pieno bisogna rabboccarlo. Il secondo, invece, intransitivo, sta per “esser colmo”, “traboccare”. Nei tempi composti si coniuga con l’ausiliare “avere” se si prende in considerazione il contenitore: il bicchiere ha riboccato; l’ausiliare “essere” se interessa il contenuto: il latte è riboccato. La medesima “regola” per il sinonimo traboccare.




venerdì 20 ottobre 2017

Sanitario: aggettivo e sostantivo




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Saremo accusati, ancora una volta, di  "acredine" (che parolona!) nei riguardi degli operatori dell'informazione se denunciamo uno strafalcione lessicale contenuto nel titolo? Quale? Sanitari. Sanitario è tanto aggettivo quanto sostantivo, ma come sostantivo indica solo e soltanto (si perdoni la tautologia) il personale medico. Ora, con tutto il rispetto, un'infermiera (allieva) non è un medico. In questo caso, quindi, il sostantivo "sanitari" non è adoperato correttamente. Allora? Per ovviare allo strafalcione il titolo andrebbe emendato cosí: «È il sesto tra il personale dell'ospedale». Leggiamo dal Treccani in rete, al lemma sanitario: «[...] 2. s. m. (f. -a) Sinon. di medico, specialmente nel linguaggio burocr.: i s. di un reparto ospedaliero; i s. sono in sciopero, in assemblea; le prescrizioni dei s.; sentire il parere di un sanitario [...]».

giovedì 19 ottobre 2017

Amare una lingua


Dalla dott.ssa Ines Desideri riceviamo e volentieri pubblichiamo
Amare la propria lingua è un po’ come amare una persona. È conservare quel sentimento, pur riconoscendo le mutazioni che – inevitabilmente, con il trascorrere del tempo – avvengono in noi stessi, nella persona che amiamo e, di conseguenza, nel sentimento stesso.
Amare la propria lingua per come fu – cinquanta o cento anni orsono – è un po’ come ostinarsi ad amare una persona per come fu, rifiutandosi di accettare che essa è cambiata, lentamente, quasi senza che ce ne accorgessimo. Eppure è cambiata.
È come contemplare una fotografia in bianco e nero di trenta o quaranta anni fa, nella quale l’amata (o l’amato) è ritratta nel fiore della giovinezza, e non riuscire a volgere lo sguardo verso la persona che oggi è.
Ciò che differenzia una persona da una lingua è che quanto più quest’ultima si evolve e si rinnova tanto più sarà viva, vivo specchio della realtà in cui viviamo, e ricca, poiché al patrimonio lessicale ed espressivo già accumulato nel corso dei secoli si aggiungono nuovi vocaboli e nuove espressioni, senza i quali avremmo un’immagine distorta della realtà e persino di noi stessi.
Gentile dottor Raso,
quando lei invita gli “amanti/amatori della buona lingua” a evitare questo o quel vocabolo, questa o quella espressione   - un francesismo, un barbarismo, l’uso “improprio, per non dire errato” di una preposizione o di un verbo – li invita a contemplare vita natural durante una fotografia in bianco e nero, in cui è immaginariamente ritratta una lingua che, nel frattempo, è cambiata. Ci piaccia o no, è cambiata.
Chi fa la lingua? Chi la studia e chi la usa. Sono loro, insieme, a fare la lingua: il primo attento alle regole, ma senza perdere di vista i mutamenti che sopraggiungono; il secondo  pronto a plasmare l’idioma a seconda delle esigenze comunicative, ma senza perdere di vista i principi basilari che lo regolano.
Avremo linguisti che si cureranno unicamente di leggere testi riguardanti l’uso corretto di una lingua, senza mai aprire un buon libro di narrativa o di poesia, che non siano soltanto Manzoni e Dante? Avremo parlanti e scriventi che si cureranno unicamente di leggere romanzi e poesie – per non citare i messaggi sparati a raffica sui telefonini – senza mai aprire un buon testo di Linguistica? Se avremo questo, significa che questo abbiamo meritato. Tutti: linguisti, parlanti, scriventi, scrittori, giornalisti, insegnanti e studenti. A scapito della nostra bella lingua.
Ines Desideri
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Gentilissima dott.ssa Desideri, ciò che lei scrive è, senza ombra di dubbio, giusto, altrimenti scriveremmo e parleremmo ancora come nel Cinquecento (messere Lodovico e madonna Giovanna). L' evoluzione, però, non deve andare a discapito della "buona lingua" calpestando le norme grammaticali come - chiedo scusa se mi ripeto - l'uso della preposizione "da" con un normale complemento di specificazione: dopo tanto penare è riuscito a ottenere un posto da dirigente. In questo caso la preposizione corretta è di perché si specifica, appunto, di quale posto si tratta. Non vorrei che un domani - con la scusa dell'evoluzione della lingua - si avallase l'uso del piuttosto che con valore disgiuntivo oppure si espandesse a macchia d'olio quell'orribile attimino (tanto caro ai politici): un attimo è un... attimo. Sí, lo so, alcuni vocabolari..., però nella "Grammatica Italiana" del Treccani in rete si può leggere: «Attimino è il diminutivo del sostantivo attimo , che indica di per sé uno spazio temporale brevissimo. Per questo motivo sarebbe improprio l’uso del diminutivo, anche se il suo impiego con valore temporale è del tutto accettabile*, soprattutto nella lingua parlata [...]». 
Termino riportando un periodo tratto dalla descrizione del libro "Piuttosto che" di Valeria Della Valle e Giuseppe Patota: « Se è vero, infatti, che l’evoluzione della lingua ha semplificato le regole della comunicazione e cambiato il modo di giudicare gli errori, è pur sempre vero che, se si vuole parlare e scrivere correttamente, bisogna interrogare la grammatica e seguire i colorati insegnamenti della matita rossa e blu».

* Accettabile, a mio avviso, è diverso da "corretto".


martedì 17 ottobre 2017

Ancora sull'uso errato della preposizione "da"




I lettori ci perdoneranno se insistiamo e se ci... ripetiamo, ma non possiamo non denunciare - ancora una volta - l'uso scorretto che la stampa fa della preposizione "da". Ci meravigliamo anche del fatto che la prestigiosa "Treccani" in rete, spesso e volentieri, per "convalidare" la correttezza di certi costrutti (ma non è il caso della preposizione "da") citi gli articoli dei giornali, come se questi - ahinoi! - fossero i depositari  della "verità linguistica". Il titolo corretto è, dunque, nozze di fiaba.



Riproponiamo anche un nostro vecchio intervento inerente all'argomento in oggetto.




Alcuni così detti scrittori di vaglia – non sappiamo se per puro “snobismo linguistico” o per scarsa conoscenza delle norme che regolano la nostra madre lingua – adoperano la preposizione ‘da’ in modo improprio, per non dire errato, confondendo le idee linguistiche ai giovani studenti che, attratti dal “nome” dello scrittore, prendono per oro colato tutto ciò che la grande stampa “propina” loro. Sarà bene vedere, quindi, sia pure per sommi capi, l’uso corretto della predetta preposizione affinché gli studenti non incorrano nelle ire dei loro insegnanti, se questi ultimi sono degni di tale nome (la nostra esperienza, purtroppo, ci rende scettici in proposito).
La preposizione “da”, dunque, è usata correttamente quando indica l’attitudine, l’idoneità, la destinazione: pianta ‘da’ frutto; camicia ‘da’ uomo; sala da tè; veste ‘da’ camera e simili. Alcuni scrittori, dicevamo, la adoperano in modo improprio, in luogo della preposizione “di”, quando si parla di una qualità specifica di una cosa e non di una destinazione, sia pure occasionale. In questi casi si deve usare esclusivamente la preposizione “di”, l’unica autorizzata “per legge grammaticale”. Si dirà, per tanto, festa ‘di’ ballo (non da ballo); biglietto ‘di’ visita (non da visita, anche se ormai l’uso errato prevale su quello corretto); uomo ‘di’ spettacolo; Messa ‘di’ Requiem. Durante le celebrazioni per il centenario della morte di Giuseppe Verdi, nel 2001, un grande giornale d’informazione titolò: “Grande successo per la ‘Messa da Requiem’”. Il giornale e il suo redattore titolista non presero a calci solo la lingua italiana, offesero soprattutto la memoria del grande musicista che ha composto, per l’appunto, la “Messa di Requiem”. Ancora. Leggiamo sempre, su tutti i giornali, frasi del tipo: “Il giocatore Sempronio ha ripreso il suo posto da titolare”. Nelle espressioni citate quel “da” è uno “snobismo linguistico” o un … “ignorantismo”? Decidete voi, gentili amici. Ma andiamo avanti. La preposizione “da” non può usurpare le funzioni della consorella “per” quando nella frase c’è un verbo di modo infinito atto a indicare l’uso, la destinazione della cosa di cui la stessa cosa è agente. Diremo, quindi, macchina “per” scrivere, non “da” scrivere (altrimenti sembra che la macchina debba “essere scritta”); matita “per” disegnare, non “da” disegnare e simili. La preposizione “da”, insomma, posta davanti a un verbo di modo infinito rende quest’ultimo di forma passiva .È adoperata correttamente, quindi, se seguita da un infinito nelle espressioni tipo “casa ‘da’ vendere” (che deve essere venduta); “grano ‘da’ macinare” (che deve essere macinato) e via discorrendo. Un’ultima annotazione: la preposizione ‘da’ non si apostrofa mai (per non confondersi con la sorella ‘di’) tranne in alcune locuzioni avverbiali: d’altronde; d’altro canto e simili.







lunedì 16 ottobre 2017

Perché il "lei"



L’usanza di dare del "lei" in segno di rispetto verso la persona cui ci rivolgiamo si può datare, storicamente, attorno al secolo XV. Nei secoli precedenti - parlando o scrivendo - si dava del "tu" se ci si rivolgeva a una persona con la quale si aveva una certa familiarità e del "voi", invece, se il nostro interlocutore era un personaggio di alto rango o con il quale non si era in confidenza. Vediamo, ora, come è "nato" il lei, pronome prima... "sconosciuto". Non ricordiamo se l’argomento è stato già trattato, nel caso ci scusiamo per la “ripetizione”.

L’avvento e il consolidarsi delle varie Signorie - a partire dal secolo decimoquarto - determinò, oltre a un sostanziale "sconvolgimento" delle condizioni politiche, economiche, sociali, culturali e di costume, nuove regole di vita; regole improntate all’insegna della raffinatezza più squisita e della solenne esteriorità. Si capisce benissimo, quindi, come in tale "habitat" il formalismo divenisse regola di vita e come i cortigiani facessero a gara - nell’intento di accattivarsi la "riconoscenza" del potente - nelle manifestazioni ossequiose e molto spesso adulatrici nei confronti del "padrone" che - se non incoraggiava tali espressioni ossequiose - certamente non le disdegnava.

Nacque, così, l’usanza di indirizzare il discorso al signore non rivolgendosi direttamente a lui, cioè alla sua persona ma all’idea astratta di cui costui - nell’intento adulatore di chi parlava - era, per così dire, la personificazione: ci si rivolgeva, dunque, al sovrano adoperando, di volta in volta, titoli come "Vostra magnificenza", "Vostra Signoria", "Vostra Eccellenza" e simili. Questi titoli, nel Quattrocento, erano stati ufficializzati e nel parlare e nello scrivere si adeguava a questi la concordanza pronominale; si adoperava, cioè, "ella", "essa" e "lei" in riferimento, per l’appunto, a vostra magnificenza, vostra signoria, ecc. Tale uso si estese, molto rapidamente, nella prima metà del Cinquecento grazie soprattutto agli Spagnoli, presenti sul nostro patrio suolo, che gratificavano con titoli onorifici anche coloro che non avevano l’autorità signorile (le così dette persone comuni). Questo fatto accrebbe la popolarità del lei che, perso l’originario e specifico valore di forma di ossequio, divenne pura e semplice formula di rispetto, in diretto riferimento alla persona cui si indirizzava il discorso e lo scritto. Occorre ricordare, anche, che l’uso del lei raggiunse solida e completa "stabilità linguistica" quando si cominciò ad adoperare questo pronome non più con funzione esclusiva di complemento ma anche - come è tuttora d’uso - in funzione di soggetto.



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La parola proposta da questo portale: statmica. Sostantivo femminile con il quale si indica la "scienza" che studia i pesi.