mercoledì 24 maggio 2017

"Pedanterie linguistiche"


Darsi la pena di...

Quanto stiamo per scrivere - siamo certi - non avrà l’ «approvazione» di qualche linguista che dovesse imbattersi, per caso, in questo sito. Comunque...
Il sostantivo femminile “pena” che, a seconda del contesto, può significare “castigo”, “punizione”, “sanzione”, “tormento”, “compassione” ricorre in numerose locuzioni “francesizzanti” che in buona lingua andrebbero evitate, anche se “immortalate” negli scritti di autori classici. Vediamole. “Prendersi la pena di...” o “Darsi la pena di...”: Giovanni si dia la pena di rispondermi al piú presto. In buona lingua meglio: Giovanni si prenda la briga di (o locuzioni simili) rispondermi al piú presto; “Aver pena a...”: Luigi non avrà troppa pena a fare quel lavoro. Molto meglio: Luigi non avrà troppa difficoltà a fare quel lavoro; “Valer la pena di...”: Vale la pena di ignorare tutto ciò che dice. In lingua sorvegliata si dirà: Conviene, è meglio ignorare tutto ciò che dice; “A pena di...”: I trasgressori sono soggetti a pena di multa. Meglio: I trasgressori sono soggetti a una multa.
*
Adempiere e adempire
Il verbo “adempiere” appartiene alla schiera dei cosí detti verbi sovrabbondanti perché ‘abbonda’ di coniugazioni: adempiere e adempire. Entrambi i verbi significano “soddisfare”, “eseguire”, “esaudire, “mantenere” e simili. Buona parte dei vocabolari, sbrigativamente, classificano il verbo tra quelli della seconda coniugazione. No, amici, adempiere, finendo in “-ere” è, sí, della seconda ma non adempire che, terminando in “-ire” si classifica tra i verbi della III coniugazione. Adempiere e adempire, insomma, pur essendo fratelli, seguono due coniugazioni diverse. Adempiere segue la II coniugazione, come ‘temere’; adempire segue la III terza come ‘finire’ e come quest’ultimo in alcune voci prende l’infisso “-isc-” tra il tema e la desinenza. Entrambi sono transitivi. Si sconsiglia, quindi, l’uso “imperante” di adoperarli intransitivamente: adempiere a un dovere. Si dirà, correttamente, adempiere un dovere. Nei tempi composti si adopera l’ausiliare avere. I coniugatori di verbi in rete non fanno distinzione alcuna “mischiando” le due coniugazioni. 
*
Scrittoio e scrivania

I due sostantivi (scrittoio e scrivania) - anche se i vocabolari ci smentiscono - non sono l’uno sinonimo dell’altro; non si “potrebbero”, quindi, adoperare indifferentemente. Il primo termine indica lo studio, la stanza, cioè, dove si scrive. Deriva, infatti, dal tardo latino “scriptorium”, di qui l’italiano antico “scrittorio”. Lo “scriptorium”, dunque, era la sala del convento dove i frati amanuensi copiavano i manoscritti. La scrivania, invece, indica il tavolino, la tavola, il mobile per scrivere ed è un denominale provenendo da “scrivano”, il “tavolino dello scrivano”. Dovremmo dire, per tanto, volendo essere particolarmente pedanti, rispettando l'etimologia, “che il dr Pasquali si è recato nello scrittoio per prendere gli occhiali dimenticati sulla scrivania”.
***
Per la serie "la lingua biforcuta della stampa"
Quindici giorni, la prognosi diagnosticata dai medici.
-------------------
Povera prognosi, sempre maltrattata dalla stampa. O la fanno diventare un reparto ospedaliero (che non è, ovviamente) o, addirittura, un trauma o una malattia.

***







Il nostro libro, scaricabile, gratuitamente, dalla rete.




8 commenti:

Ines Desideri ha detto...

Gentile dottor Raso,
non mi imbatto per caso nel suo sito: lo seguo con assiduità e interesse, sebbene non sempre io condivida le sue "noterelle".
Mi permetta, dunque, di esprimere alcune opinioni, riguardo agli argomenti trattati oggi.

Come lei certamente sa, sono contraria all'abuso dei vocaboli stranieri. Sono altrettanto contraria alla 'caccia alle streghe', in cui le streghe sarebbero tutte le parole appartenenti a un'altra lingua o da essa derivate.
Delle locuzioni "francesizzanti" da lei citate e che - a suo giudizio - sarebbe bene evitare, soltanto una mi sembra sia usata frequentemente: "valere la pena di...".
"Vale la pena di ignorare tutto ciò che dice. In lingua sorvegliata si dirà: Conviene, è meglio ignorare tutto ciò che dice" è il suo consiglio.
Due domande, dunque.
"Lingua sorvegliata": da chi e come?
Ritiene che "conviene/è meglio" (come da lei suggerito) renda l'idea di "fatica/tormento/punizione/castigo" - gli ultimi due vocaboli da intendere in senso metaforico, ovviamente - quanto "vale la pena di..."?

Sorvolo sulla pedanteria, da lei stesso riconosciuta, della frase " il dr Pasquali si è recato nello scrittoio per prendere gli occhiali dimenticati sulla scrivania", ma le chiedo se in "lingua sorvegliata" sia da preferire "recarsi" - di cui son pieni i polverosi documenti stilati in perfetto "burocratese" - al verbo "andare".

Infine, riguardo a "prognosi", ritengo che la lingua della stampa - da lei definita "biforcuta" - miri, debba mirare alla sintesi ed escludo che i lettori considerino la "povera prognosi" un reparto ospedaliero o un trauma o una malattia.

Cordiali saluti
Ines Desideri


Fausto Raso ha detto...

Gentilissima Ines,
la ringrazio, innanzi tutto, dell'attenzione di cui mi onora; sarò telegrafico.
1) Per "lingua sorvegliata" si intende "lingua accurata";
2) "Conviene/è meglio", a mio giudizio, rende perfettamente l'idea di "fatica", "tormento" ecc.: "conviene/vale la pena (di) sprecare tanta fatica per un lavoro inutile?".
Quanto alla stampa concordo con lei: deve mirare alla sintesi ma non a discapito della grammatica o del buonsenso (come si può "diagnosticare una prognosi"?).
Con viva cordialità
FR

Ines Desideri ha detto...

Gentile dottor Raso,
mi permetta una precisazione.
Nel porre le domande "da chi e come?" mi sono attenuta all'espressione da lei usata, "lingua sorvegliata", di cui conoscevo il significato.
"Lingua accurata": le domande sarebbero le stesse - secondo chi? secondo quali criteri? - ma non importa.

Cordialmente
Ines Desideri


Fausto Raso ha detto...

Gentilissima dott.ssa Ines Desideri,
a mio avviso - a mio avviso, ripeto - non si possono formulare le domande che lei propone ("sorvegliata da chi", "come" ecc.) stando a quanto riporta il Treccani: «... Part. pass. sorvegliato, con valore verbale e di agg., sottoposto a vigilanza, a controllo: strade, zone sorvegliate; nel linguaggio letter., come agg., accurato, attento riferito allo stile: uno stile, un fraseggio sorvegliato (analogam., uno scrittore sorvegliato, molto attento all’espressione, allo stile)...».
Con stima e cordialità
FR

Ines Desideri ha detto...

Mi scusi, dottor Raso, ma le conversazioni tenute in piedi esclusivamente a 'colpi' di definizioni tratte dai vocabolari non sono nel mio... stile.
Rinnovo le mie scuse, rivolte a lei e ai suoi lettori, per aver esposto la mia opinione e i miei dubbi.

Cordialmente
Ines Desideri


Fausto Raso ha detto...

Gentilissima Ines,
scuse? e di che cosa? Sono io, eventualmente, a dovermi scusare con lei per non avere risposto appieno alla sua domanda.
Con rinnovata stima
Fausto Raso

Teo ha detto...

Gentile dott. Raso,

io però continuo a domandarmi perché lei continui ad adottare una posizione così intransigente e anacronisticamente veteropuristica nei confronti dei francesismi adattati e acclimati da lungo tempo nella nostra lingua, anche con esempi di buoni se non ottimi scrittori. Posso capire l'avversione per gli anglicismi (da "spending review" a quelli mal adattati come "downloadare") e per i francesismi non adattati (da "croissant" a "rendez-vous") ma non vedo nessun motivo plausibile per avversare vocaboli e locuzioni che, pur derivando dal francese, si sono perfettamente adattati alle strutture della nostra lingua, da "controllare" a "decollare" fino appunto a "valer la pena". Del resto, il neopurismo di Migliorini sottolineava proprio il fatto che anche i vocaboli di origine straniera potessero essere assimilati fino a rientrare nelle strutture fonotattiche della nostra lingua. Solo i puristi nostalgici di certe censure dell'Ottocento, come Aldo Gabrielli, si ostinavano a rimanere nel solco di Puoti, Cesari, Fanfani, Arlia e Rigutini e dei loro lessici dell'infima e corrotta italianità. Per quanto riguarda "valer la pena", ne ho trovato un'occorrenza ad esempio nella Logica come scienza del concetto puro di Benedetto Croce, la cui prosa italiana è di grande limpidezza ed è estremamente sorvegliata. O lei preferisce l'autorità di Fanfani-Arlia e Gabrielli a quella di Croce? Sinceramente, mi sembrerebbe un eccesso di severità che meglio sarebbe concentrare contro gli anglicismi non adattati. Ecco la citazione di Croce:
"Questo è il pensiero logico, in quanto distinto dalla rappresentazione o intuizione, la quale ultima offre le cose e non le ragioni, l'individualità e non l'universalità.
Degli altri cosi detti principi logici non vale la pena di parlare; perché, o se n'è trattato già implicitamente, o sono inezie prive di qualsiasi interesse."
(Benedetto Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza, 1909, p. 74).
Un'altra occorrenza, di quasi un secolo anteriore, si trova nell'epistolario di Giacomo Leopardi:
"Ma queste offerte son cose di tanto poco momento, che non vale la pena di parlarne. Addio, Carlo mio caro. Pensa un poco se fosse mai possibile ch'io ti potessi servire in qualche cosa, prima del mio ritorno."
(Giacomo Leopardi, Epistolario, Firenze, Le Monnier, 1938, lettera del 19 aprile 1823 al fratello Carlo).
Ora è vero che Leopardi fu anche uditore delle lezioni di lingua italiana del marchese Basilio Puoti, ma appunto mentre quest'ultimo è quasi del tutto dimenticato, il primo è tra i grandi letterati italiani più letti in assoluto. O lei preferirebbe le prescrizioni del Puoti all'uso concreto della lingua di Leopardi? Resto in attesa di una risposta e le porgo cordiali saluti.

Fausto Raso ha detto...

Cortese dr Teo,
sarò telegrafico. Cercherò, in futuro, di essere "meno purista" e "piú progressista".
La ringrazio dell'attenzione.
Con viva cordialità
FR