domenica 30 aprile 2017

Consigli per il buon "uso" del nostro idioma

Alcuni consigli del linguista Luciano Satta (per coloro che amano il bel parlare e il bello scrivere, aggiungiamo).

RAGGIUNGERE. Ecco un paio di casi nei quali è bene fare a meno di questo verbo: “E' stato raggiunto da sette colpi”, “Un colpo l'ha raggiunto al torace” (meglio “E' stato colpito sette volte”, “Un proiettile lo ha colpito al torace”); “Il presidente ha raggiunto Milano alle dieci” (meglio “Il presidente è arrivato a Milano alle dieci”).

SCOPO INTIMIDATORIO. Siccome si pensa che i poliziotti, quando durante una manifestazione sparano in aria, non lo facciano per colpire le rondini e tanto meno i pensionati al balcone, dire che i medesimi “hanno sparato in aria a scopo intimidatorio” è superfluo.

VIGORE. “È in vigore da oggi” sta bene; ma non sta bene “Va in vigore da oggi”: in questo caso bisogna dire “Va in vigore oggi”; una legge andò in vigore tre mesi fa, non andò in vigore “da” tre mesi fa.

PRIMA PERSONA. Finirà, come tante altre mode. Ma intanto segnaliamo l'abuso dell'espressione “in prima persona”: Ha affermato che risponderà “in prima persona” delle sue iniziative. Quasi sempre se ne può fare a meno.

RIPETERE. Si legge spesso: Il fatto "si è ripetuto per la seconda volta". Bisogna pensarci bene: un fatto che "si ripete per la seconda volta" è un fatto che accade per la terza volta. Se non è così, meglio usare verbi come "accadere", "avvenire" eccetera.

POVERETTO. Credevamo che la consuetudine fosse finita; invece si continua a chiamare ‘poveretto’ o ‘poveretta’ la vittima di un incidente. Sa di giornalismo vecchio.

PRATICAMENTE. Prima di usarlo, vediamo se questo avverbio serve: il piú delle volte no, tranne un certo desiderio di attenuare, ma allora il ‘praticamente’ è parola troppo di comodo, e vagamente ipocrita. Inoltre non definisce bene il concetto: scrivendo “L’illuminazione è ‘praticamente’ inesistente” non si spiega se l’illuminazione è solo difettosa o se c’è cosí poca luce che si va a sbattere la testa contro i lampioni.


ULTERIORE. Quasi sempre può essere sostituito da ‘altro’. Può passare, per esempio, in “Si cerca di evitare un ‘ulteriore’ aggravamento della situazione”, ma sta male in “Ci saranno ‘ulteriori’ incontri; ossia ‘ulteriore’ è accettabile nel senso di qualcosa in piú come quantità (e anche in senso spaziale: “Le truppe hanno fatto un’ ‘ulteriore’ avanzata), ma non nel senso di qualcosa in piú come ripetizione di un avvenimento. Lo stesso vale, si capisce, per l’avverbio ‘ulteriormente’.

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Per la serie "la lingua biforcuta della stampa"

Resta in carcere l'uomo

che perseguitava

la ex-moglie e i figli

Ora scrive: "Mi pento"
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Sarà utile "ricordare" ai redattori titolisti del quotidiano in rete (autori dell' «orrore»: ex-moglie) che la preposizione "ex", in funzione di prefisso,  non si fa seguire dal trattino, come possiamo "vedere" anche nel/sul vocabolario Treccani in rete: ex èks prep. lat. (propr. «da, fuori di»). – 1. a. Oltre che in locuzioni lat., usate spesso anche in contesti italiani (come ex abrupto, ex cathedra, ex novo, ex professo, ecc.), si adopera come prefisso per indicare la condizione di chi ha ricoperto una carica o un ufficio che ora non ricopre più; per es., ex ministro, ex console, ex prefetto, ecc.


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La parola proposta da questo portale: scaccolo. Sostantivo maschile che vale "pezzo di carta", "scheda" e simili.

sabato 29 aprile 2017

Defatigare e defaticare "pari" non sono


Tempo fa (forse è meglio: anni fa)  avevamo scritto alla redazione del  vocabolario Treccani in rete perché emendasse la voce "defatigare". L'emendamento non è stato preso in considerazione ed è un peccato perché un cosí autorevole vocabolario non può "permettersi" orrori di alcun genere. Riproponiamo quanto scrivemmo, sperando che...

Leggiamo dal vocabolario “Treccani” in rete:


defatigare
(non com. defaticare) v. tr. [dal lat. defatigare, comp. di de- e fatigare «affaticare»] (io defatigo, tu defatighi, ecc.), letter. – Stancare, esaurire le capacità di resistenza di una persona.
Part. pres. defatigante anche come agg., che affatica, che logora le forze. Part. pass. defatigato, anche come agg., affaticato, spossato.
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“Defaticare” non è una variante poco comune di “defatigare”. Sono due verbi a sé stanti e con significati diversi. “Defatigare”, con la “g”, è pari pari il latino ‘defatigare’ composto con il prefisso “de-” (che non ha valore sottrattivo) e il verbo ‘fatigare’ (affaticare) e significa “stancare”, “logorare”, “affaticare”. “Defaticare”, con la “c”, è composto con il prefisso sottrattivo o di allontanamento “de-” e il sostantivo “fatica” (‘che toglie, che allontana la fatica’). Si adopera soprattutto nel linguaggio sportivo nella forma riflessiva e significa “compiere determinati esercizi per togliere dai muscoli l’eccesso di acido lattico formatosi in seguito a sforzi prolungati”. Si potrebbe dire quindi, in senso lato, che “defatigare” sta per “procurare la fatica”; “defaticare” per allontanarla.
Altri vocabolari, comunque, sono incorsi nel medesimo “errore” del Treccani.


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La parola che proponiamo è ripresa dal Palazzi: gurgule. Sostantivo maschile con il quale si indica un canale attraverso il quale l'acqua piovana è gettata lontana dal muro; in questo modo si evita che il muro stesso si bagni e venga danneggiato dall'umidità.


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I "gazebo" o i "gazebi"?
I vocabolari consultati (De Mauro, Gabrielli, Garzanti, Treccani, Sabatini Coletti) non "consentono" il plurale del predetto sostantivo: il gazebo / i  gazebo. Lo Zingarelli è possibilista: i gazebo o i gazebi. Il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia, non ha dubbio alcuno: i gazebi. A chi dare ascolto, dunque? Alla quasi totalità dei dizionari che non ammettono il plurale del termine in oggetto.  


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Pietire? Per carità, piatire!

Ripeteremo fino alla nausea che il verbo corretto è “piatire” (non “pietire”) che alla lettera significa “contendere in giudizio”, “dibattere” e, per estensione, “litigare” ed è un derivato del sostantivo “piato” (lite giudiziaria, controversia). Quest’ultimo sostantivo è il latino “placitum”, participio passato neutro del verbo “placere” (piacere); propriamente il “placitum” è un parere, una decisione, un’opinione, una sentenza e ha acquisito, nel tardo Latino, l’accezione di causa, lite. Piatire, dunque, significa discutere, litigare (durante il dibattimento in tribunale non si litiga, non si discute?). In seguito, attraverso un processo semantico e nell’uso prettamente familiare, piatire ha assunto – come possiamo leggere nel nuovo vocabolario della lingua italiana Treccani – il significato di “lamentarsi con tono querulo, fastidioso”; piatire sulla propria condizione; piatire sulla propria miseria; anche con uso assoluto (da solo): non fa che piatire. Adoperato in senso transitivo e familiarmente vuol dire, per l’appunto, “chiedere con noiosa e fastidiosa insistenza” (quasi litigando, da ‘piato’, lite, come abbiamo visto) assumendo atteggiamenti umili: piatire protezione, piatire favori. Questo verbo, insomma, non ha nulla che vedere con la “pietà” e il “pietismo”.


venerdì 28 aprile 2017

Complemento di abbondanza o di differenza?

Cortese dott. Raso,
nella frase Luigi è più alto di Carlo di cinque centimetri; cinque centimetri che complemento è? Immagino di abbondanza. Giusto? Complimenti per il suo blog e per il suo meraviglioso libro (Un tesoro di lingua) che ho scaricato dalla rete.  
Cordialmente
Carmelo S.
Enna
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Gentile Carmelo, no, siamo in presenza di un complemento di differenza. Veda qui. Grazie per i suoi complimenti.
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Fare o dire?
Il verbo fare è adoperato - come suol dirsi - in tutte le salse, soprattutto in luogo del verbo dire. Ciò non è ortodosso sotto il profilo strettamente linguistico-grammaticale. Il verbo "fare"  è usato correttamente in luogo del fratello "dire" soltanto quando nel corso di una narrazione o di un dialogo (fare) sottintende  anche l'azione del gestire e vuole esprimere l'idea di un intervento repentino. M'incontra per la strada, per caso, e mi fa (cioè: mi dice): Quando sei tornato? È bene evitare l'uso del verbo fare - sempre che si voglia scrivere e parlare rispettando le "leggi della lingua" - in alcune locuzioni in cui il suddetto verbo è adoperato nella forma riflessiva apparente: farsi i baffi; farsi l'automobile; farsi i capelli; farsi le unghie; farsene una passione; farsene una malattia; farsi cattivo sangue e altre che ora non ci sovvengono. In tutte le espressioni su riportate il verbo fare si può sostituire con altri che fanno alla bisogna (quindi "piú appropriati"). Radersi, per esempio, è piú appropriato di "farsi la barba".

giovedì 27 aprile 2017

È un bel delubro


La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": delubro.
E quella proposta da questo portale e non "lemmata" nei vocabolari dell'uso: arroccettare  (o arrocchettare). Verbo denominale parasintetico (da rocchetto o, non comune, roccetto). Significa pieghettare un indumento, camicie in particolare, con apposito strumento.

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Restare e rimanere a voler essere pignoli i due verbi non si possono adoperare indifferentemente. Il primo indica “per poco tempo”, con l’accezione di avanzare: mi restano pochi spiccioli; il secondo, invece, indica “per un tempo più lungo”, con l’accezione primaria di dimorare: rimanemmo a casa tutto il giorno.

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Per la serie "la lingua biforcuta della stampa"
Un titolo della "Gabbia Open" di ieri:
Bruxelles [e Berlino] tirano il fiato: l'euro è salvo.
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Hanno pluralizzato il verbo perché Bruxelles, finendo con la "s", è plurale?


martedì 25 aprile 2017

Gli «aspirapolveri»


Sarebbe interessante conoscere su quali basi "logico-linguistiche" la rubrica "Una parola al giorno" della Zanichelli, del 19 scorso, consente il plurale del sostantivo "aspirapolvere".

La parola di oggi è: aspirapolvere

 SILLABAZIONE: a–spi–ra–pól–ve–re
aspirapólvere /http://dizionari.zanichelli.it/pdg_media/audio.jpg aspiraˈpolvere/
[comp. di aspira(re) polvere  1942]
s. m. (pl. inv. -i)
 elettrodomestico che aspira la polvere e i piccoli rifiuti depositandoli in un apposito contenitore: passare l'aspirapolvere.

Tutti i vocabolari che abbiamo consultato (De Mauro, Devoto-Oli, DOP, Gabrielli, Garzanti, Treccani, Palazzi, Sabatini Coletti, De Agostini) non ammettono il plurale del sostantivo in oggetto. E il motivo ci rimanda alla formazione del plurale dei nomi composti, che restano invariati quando sono formati con una voce verbale (aspirare) e un nome femminile singolare (polvere). Abbiamo, infatti, il posacenere / i posacenere; lo spazzaneve / gli spazzaneve; lo scioglilingua / gli scioglilingua; il cavalcavia / i cavalcavia; l'aspirapolvere... gli aspirapolvere.

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Esser doppio come le cipolle

Ecco un modo di dire - forse poco conosciuto ai piú - che rende magistralmente l'idea di una persona falsa, ipocrita. Si dice, in particolare, di una persona che non fa mai capire ciò che pensa, che nasconde sempre qualcosa. L'origine della locuzione - adoperata in senso figurato, naturalmente - ci sembra quanto mai intuitiva: l'ipocrito viene paragonato alla cipolla, che si compone di molteplici strati sovrapposti. E a proposito di cipolla, come non accennare a un altro modo di dire - anche questo poco conosciuto - ma messo in atto da molte persone nel periodo invernale: "coperto come una cipolla"? Si dice cosí, infatti, di una persona che, per ripararsi dal freddo, indossa molti indumenti, messi uno sopra l'altro. Anche in questo caso - ci sembra evidente - gli indumenti vengono paragonati ai vari strati della cipolla.




lunedì 24 aprile 2017

Totò o il trionfo della grammatica. S.C. Sgroi


di Salvatore Claudio Sgroi *

È un vero capolavoro di "verbalizzazione" la notissima scena del film (Totò, Peppino e la malafemmena del 1956), in cui Totò detta a Peppino una lettera destinata a una signorina perché, dietro compenso di una somma, lasci il nipote che per lei ha perduto la testa, compromettendo il proprio futuro.

Tutta la comicità di Toto è giocata a un tempo sulla sua mimica e sull'uso dell'italiano così come veniva realizzato dagli italiani, nativofoni dialettali e italofoni alle prime armi. Un italiano quindi di stampo popolare con interferenze dialettali, processi vari di semplificazione soprattutto morfologica, e mescolanza di stili e registri eterogenei, alti e bassi, particolarmente marcati nell'uso scritto.

Nel corso della dettatura della lettera a un certo punto Totò così si esprime:

«Signorina, [...] Questa moneta servono, [...] a che voi vi consolate [...] dai dispiacere, dai dispiacere che avreta... che avreta... che avreta (e già è femmina, e femminile), che avreta, perché... dovete lasciare nostro nipote».

Ciò che qui colpisce è la presenza della marca del femminile nella desinenza verbale ("avret-a"), ben 4 volte, con piena consapevolezza metalinguistica. L'osservazione potrebbe sembrare stravagante se non gratuita. In realtà, si rivela di estremo interesse, perché lascia trasparire una notevole sensibilità linguistico-grammaticale da parte di un "laico". Insomma un Totò originale, se non geniale "linguista".

L'italiano marca infatti il femm. solo nei nomi, nei pronomi e nei loro accordi con gli aggettivi, gli articoli, i clitici (per es. "una bella ragazza"; "lei è proprio bella", "la compro, la macchina"),  e con i participi passati ("Stefania è uscita").

Il futuro "avret-e" è diventato nella lettera di Totò "avret-a" probabilmente perché legato alla pronuncia regionale dell'italiano in Campania, in cui le "-e" finali atone tendono a diventare vocali un po' evanescenti, alla francese. Volendo quindi dare una piena identità italiana alla "-e", Totò ha reinterpretato la "-e" evanescente come una vocale piena, di massima apertura, ovvero come "-a". E a questo punto, essendo la /-a/ nei sostantivi italiani, per l'87% dei casi, la vocale tipica delle parole femminili, Totò si è lasciato andare al commento di "avret-a" come termine femminile che concorda col soggetto appunto femminile (la signorina, cioè, per la quale il nipote aveva perduto la testa).

Il marcare il genere nel verbo, non è però una stravaganza. Si tratta infatti di una caratteristica del 16% delle lingue del mondo, stando a uno studio della Bybee del 1995. Totò ha quindi creato una neo-regola dell'italiano relativa al femminile, trasferendola dai nominali al verbo. Per curiosità del lettore, sulla scorta di studi di E. Di Domenico (1997) e da ultimo di G. Schirru (2016), possiamo documentare tale uso in alcune lingue del mondo. Dove ha peraltro origini diverse. In alcune lingue le desinenze personali del verbo rappresentano l'agglutinazione dei pronomi liberi (così in arabo). In altre invece si spiegano con l'originario participio passato (così in russo e nell'indo-iranico). O ancora in maniera diversa. (Per ulteriore esemplificazione il lettore  curioso si potrà rifare al testo istituzionale di G.G. Corbett (1991) Gender, basato su un campione di oltre 200 lingue del mondo).

In primo luogo (Schirru 2016), il genere coniugato è documentato nell'arabo standard e nell'arabo classico: (i) fa'alta 'facevi [tu Masch.]' Versus fa'alti 'facevi [tu Femm.]'; ('tu' Masch. = 'anta > -ta Versus 'tu' Femm. = 'anti > -ti); -- (ii) fa'ala 'faceva [lui]' Versus fa'alat 'faceva [lei]'; -- (iii) fa'altum 'facevate [voialtri]' Versus fa'altunna 'facevate [voialtre]'; -- 'voialtri'  'antum > -tum Versus 'voialtre' 'antunna > -tunna; -- (iv) fa'alū 'facevano [essi]' Versus fa'alna 'facevano [esse]'; -- (v) DUALE: fa'alā 'facevano [essi-due]' Versus fa'ala'facevano [esse-due]'.

Poi in russo: (i) (ja) napisa-l prijatelju '(io) scrissi [Masch.] a un amico' Versus (ja) napisa-l-a prijatelju '(io) scrissi [Femm.] a un amico'; -- (ii) ležal-Ø 'stava [lui]' Versus ležal-a 'stava [lei]' Versus ležal-o 'stava [esso]'.

E in indo-iranico - in persiano - in part. nel dialetto di Abyane: bakat-Ø '[è] cad-uto' > 'cadde [lui]' Versus bakat-a '[è] cad-uta' > 'cadde [lei]'. E nel dialetto del Takestan: mivrij'corre [lui]' Versus mivrij-ía 'corre [lei]'.

Quindi in somalo (Di Domenico 1997): joogaa/joogá 'è là [lui]' Versus joogtaa/joog 'è là [lei]' (ignota l'origine).

Come prefissato in abkhaz (lingua caucasica nord-occ.): (i) -q'awp' '[tu Masch.] sei' Versus -q'awp' '[tu Femm.] sei'; -- (ii) -q'awp' '[lui/lei] è Versus q'awp' '[esso/a] è'.

E in lak (lingua caucasica settentr.): Ø-ur-i  '[lui] è' Versus d-ur-i '[lei] è' Versus b-ur-i '[esso/a] è'.

Ritornando in Italia, il fenomeno è presente nel dialetto delle Marche (il ripano di Ripatransone): (i) [i/tu/issu 'io/tu/lui'] magn-u 'mangio' (Masch.) Versus [i/tu/esse 'io/tu/lei'] magn-e (Femm.); -- (ii) [nui 'noialtri'] magn-emi (M.) Versus [nui 'noialtre'] magn-ema (F.); -- (iii) [vui 'voialtri'] magn-eti (M.) Versus [vui 'voialtre'] magn-eta (F.); -- (iv) [isci 'essi'] magn-u (M.) Versus [essa 'esse'] magn-a (F.); -- (v) [issu] ved-u '[lui] vede' (M.) Versus [esse] ved-e 'vede (F.) ' Versus sǝ ved-ǝ'si vede che' (Neutro).

E nei dialetti veneti del Trentino (dialetto di Roncone): è 'è' (Masch.) Versus èi 'è' (Femm.), originariamente in variazione libera; -- el lat l'è vignù àgher 'il latte l'è diventato acido' Versus l'èi propi na bela giornada 'l'è proprio una bella giornata'.

In conclusione, Totò, con le parole e i gesti, si rivela un grande comico che insegna agli italiani, con notevole sensibilità linguistica e teorica, a riflettere sulla poliedricità della lingua e della Grammatica italiana, e non solo.

* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania


Autore tra l'altro di

--Per una grammatica ‘laica’. Esercizi di analisi linguistica: dalla parte del parlante (Utet 2010);

-- Scrivere per gli italiani nell'Italia post-unitaria (Cesati 2013);

--Dove va il congiuntivo?  (Utet 2013);

-- Il linguaggio di Papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticali (Libreria Editrice Vaticana 2016)

domenica 23 aprile 2017

L'articolo è sempre obbligatorio?


La norma generale impone l’articolo davanti a tutti i nomi comuni; si omette, però, e l’omissione è obbligatoria, in numerose locuzioni o espressioni particolari come, per esempio, “aver sonno”, “far paura”, “andare a cavallo”, “camicia da notte”, “sopportare con pazienza” ecc. Dei nomi propri richiedono l’articolo determinativo, solo quello, si badi bene, i nomi dei monti: il Cervino, il Bianco; i nomi dei fiumi: il Po, il Tevere; i nomi di regione, di nazione, di continente: il Lazio, la Grecia, l’Asia. È altresí necessario l’uso dell’articolo davanti ai cognomi: il Bianchi, il Rossi, il Ferrari. Davanti ai cognomi di personaggi illustri e conosciuti l’articolo si può porre o omettere, dipende dal gusto di chi scrive o parla: Manzoni o il Manzoni, Leopardi o il Leopardi.
Rifiutano categoricamente l’articolo i nomi di città, salvo quelli in cui l’articolo – per “consuetudine popolare” – è diventato parte integrante del nome: La Spezia, L’Aquila, La Valletta ecc. È consigliabile, anzi, “obbligatorio” l’articolo davanti ai nomi di città se sono preceduti da un aggettivo o accompagnati con una specificazione: la Roma umbertina, la Firenze medievale, la dotta Bologna. E a proposito dei nomi geografici, dei fiumi in particolare, alcune volte ci troviamo di fronte al dubbio amletico circa il genere di articolo da adoperare: maschile o femminile?
Si dice, generalmente, che i nomi dei fiumi che terminano in “-o”, in “-e” e in “-i” sono di genere maschile: il Tevere, il Tamigi, il Ticino; quelli la cui terminazione è in “-a” sono, prevalentemente, femminili: la Senna, la Garonna. Ma come la mettiamo con il fiume Volga? Stando alla “regola” dovrebbe essere femminile: la Volga. Nell’uso comune sentiamo, invece, il Volga. Perché? Il motivo è semplicissimo: Volga è femminile in russo e in francese; maschile in spagnolo e in questo genere si usa, generalmente, anche in italiano. La forma originaria femminile si incontra, però, presso alcuni scrittori come il D’Annunzio che scrive “dalla Volga al Golfo Persico”. Il genere femminile, per tanto, non è da considerare erroneo perché rispecchia la forma originaria russa come usano, soprattutto, gli slavisti. Ma anche il nostro fiume Piave è “ambisesso”: la Piave e il Piave. In alcuni vecchi libri prevale il femminile, come si può notare leggendo Antonio Stoppani, Gasaparo Gozzi e il “moderno” Paolo Monelli. Il Carducci e in particolare Gabriele D’Annunzio “mascolinizzarono” il fiume sacro alla Patria tanto è vero che la famosissima canzone della Grande Guerra recita: il Piave mormorò…


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La parola proposta da questo portale: sciomachia. Sostantivo atto a indicare un finto combattimento, quindi una manovra militare d'addestramento.

sabato 22 aprile 2017

Sí, si può dire, "ma però" non è uno strafalcione


Mercoledí scorso, nel nostro intervento dal titolo «"Punti di vista" grammaticali», invitavamo gli amici lettori a diffidare delle grammatiche redatte da illustri sconosciuti, amici di editori "compiacenti". E avevamo ragione da vendere. Ci  è capitata fra le mani una di queste "grammatiche". L'abbiamo "spulciata" e... abbiamo scoperto che condanna l'espressione (correttissima, invece) "ma  però". Questo sacro testo, scritto a due mani, sostiene la tesi secondo la quale la locuzione suddetta è errata perché il "ma", congiunzione avversativa, è unito a "però", un'altra congiunzione avversativa; bisogna scegliere, quindi, nel parlare e nello scrivere, o l'una o l'altra congiunzione. Osservazione priva di fondamento perché la ripetizione delle due congiunzioni  ha soltanto una funzione rafforzativa come, per esempio, "ma pure", "ma tuttavia", "ma nondimeno"; espressioni che nessun grammatico (con la "G" maiuscola) ritiene di dover censurare. Vogliamo condannare anche il Manzoni, "principe" degli scrittori, là dove scrive «ma però c'era abbondantemente da fare una mangiatina»? E prima di lui il Divino: «... ma però di levarsi era neente» (Inferno, XXII).  Gli "autorevoli" estensori di siffatte grammatiche dovrebbero documentarsi prima di dare alle stampe testi infarciti di simili sciocchezze, ben sapendo che  circoleranno nelle scuole e i "fruitori" prenderanno per oro colato quel che leggeranno.
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La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": displuvio.

venerdì 21 aprile 2017

Fare le parti del leone


Quest'espressione è talmente conosciuta che quasi ci sembra di offendere l'intelligenza dei lettori il riproporla con la relativa spiegazione. L'esperienza ci dice, però, che molto spesso alcuni adoperano i modi di dire "pappagallescamente", senza conoscerne, cioè, la provenienza e il significato "recondito". Questa locuzione, dunque, si usa quando si vuole mettere in evidenza il fatto che una persona divide a proprio vantaggio qualcosa da spartire; oppure quando prende la parte migliore di alcunché (e piú abbondante) con la... forza. L'espressione si adopera anche riferita a persone che in una determinata situazione assumono - di propria iniziativa - un ruolo importante, di prestigio, lasciando gli altri "in ombra". Il modo di dire è tratto da alcune favole di Esopo (ma anche di Fedro e La Fontaine) in cui un leone, dopo essere andato a caccia con un asino, divide la preda in tre parti, dicendo: «La prima spetta al primo, vale a dire a me che sono il re. La seconda mi spetta in qualità di socio, quanto alla terza saranno guai tremendi per te se non ti decidi a squagliartela».
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Ci viene da ridere quando alla radio o alla TV sentiamo giornalisti (ma anche ospiti "eccellenti") dire: grazie, grazie davvero. Davvero è un avverbio che significa "sul serio" e simili. Chi ringrazia, quindi, sente la necessità di  specificare che il suo non è un "ringraziamento per scherzo"?  Lo confessiamo: non sapevamo che si potesse ringraziare anche per celia.
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Per la serie "la lingua biforcuta della stampa"

Ricordiamo ai redattori di un quotidiano in rete che i prefissi si scrivono "attaccati" alla parola che segue .  Il titolo sottostante, quindi, è errato.

Maxi ordine di medicine sbagliate: trovato l'accordo con l'industria farmaceutica


Correttamente: maxiordine. Dal Treccani in rete: maxi-. – Primo elemento di parole composte formate modernamente, tratto dal lat. maxĭmus «massimo» per tramite dell’inglese e in contrapp. a mini-, usato per indicare dimensioni o lunghezze superiori al normale; originariamente adoperato nel linguaggio della moda (per es., maxigonna, maxicappotto) e anche nel linguaggio sport. (per es., maximoto), è molto frequente in ambito giornalistico e nell’uso com. in luogo di perifrasi di analogo sign.: maxitruffa, maxitamponamento, maxirissa.





giovedì 20 aprile 2017

Il nepoticida


Nel vocabolario italiano - ci sembra - non c'è un termine atto a definire la persona che uccide un nipote. Proponiamo, per tanto, ai vocabolaristi il neologismo lessicale "nepoticida" (o "nepotecida"). Il sostantivo proposto è formato con le voci latine "nepote(m)" e il suffisso  "-cida", tratto dal verbo "caedere" (tagliare, uccidere).

mercoledì 19 aprile 2017

«Punti di vista» grammaticali

Alcuni insegnanti, "spalleggiati" da... alcune grammatiche, ritengono errato cominciare un periodo con la congiunzione "ma" perché essendo avversativa il suo uso è corretto solo con frasi (o due elementi) che indicano contrasto come, per esempio, «era bello 'ma' non elegante». E dove sta scritto? Si può benissimo, ed è formalmente corretto, cominciare una frase o un periodo con il "ma" in quanto questa congiunzione indica la conclusione o l'interruzione di un discorso per passare a un altro. E come liquidiamo la questione della virgola dopo il "ma"? Ci spieghiamo. I soliti "grammatici" ritengono errato l'uso della virgola dopo la predetta congiunzione avversativa.  A questi "soloni della lingua" ricordiamo che se la congiunzione avversativa (ma) precede una frase parentetica  la virgola non solo è corretta ma è... d'obbligo: avrei voluto telefonarti ma, visti i precedenti, non ho avuto il coraggio. Nell'esempio riportato,  l'espressione "visti i precedenti" è una frase parentetica, la virgola dopo il ma è, per tanto, obbligatoria. Dunque, cari amici, quando avete dei dubbi grammaticali non consultate testi di lingua scritti da illustri sconosciuti, amici di editori "compiacenti": troppo spesso questi "sacri testi" sono l'esempio della contraddizione, per non dire delle "mostruosità linguistiche".  Sarebbe auspicabile e utile, in questo campo, l'intervento dell'Accademia della Crusca. Tutte le pubblicazioni scolastiche dovrebbero avere l' «imprimatur» della suddetta Accademia: in questo modo si raggiungerebbe - senza la nascita di un apposito organismo - quell'uniformità linguistica invocata, anni fa, dall'insigne prof. Nencioni. I testi, infatti - seppure scritti con stile personale - conterrebbero le medesime regole e i "fruitori" non avrebbero possibilità di errore.

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"Pedana per disabili fuorilegge": vigili chiudono locale per tre giorni al Pigneto

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Siamo solidali con le persone disabili, che i titolisti di un quotidiano in rete hanno dipinto come banditi, delinquenti. Il titolo corretto avrebbe dovuto recitare: "Fuori legge pedana per disabili". Siamo in presenza di un classico caso di anfibologia  che, in buona lingua, è assolutamente da evitare. Si veda anche qui.

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La parola proposta da "unaparolaalgiorno.it": polemogeno.


martedì 18 aprile 2017

Un "quiz ortografico"

Il pregevole articolo di ieri, del prof. Sgroi, ci ha dato l'idea di sottoporre a  un "quiz ortografico" i nostri amici lettori. Stampate lo scritto sottostante  (o ricopiatelo su un foglio) e sottolineate le parole che ritenete essere scritte correttamente; poi confrontatele con quelle riportate in un buon vocabolario. Se avete sbagliato piú di cinque parole, dopo il "confronto", la vostra conoscenza dell'ortografia italiana lascia a desiderare.

Acchito  acchitto; pic nic  pic-nic   picnic; daccordo  d'accordo; beneficienza  beneficenza; ufficietto  ufficetto; pressapoco  pressappoco; cosidetto  cosiddetto; scalfitura  scalfittura; un'albero  un albero  uno albero; colluttorio  collutorio; suppletivo  supplettivo; ossequente  ossequiente; propaggine  propagine; birichino  biricchino; sopratutto  soprattutto; tramviere  tranviere; reboante  roboante; scenziato  scienziato; sufficente  sufficiente; suor'Elena  suor Elena; pover'uomo  pover uomo; un scolaro  uno scolaro; sanpietrino  sampietrino; artificiere  artificere; fra' Giovanni  fra Giovanni; noi muoriamo  noi moriamo; beneficierò  beneficerò; un amica  un'amica; nociuto  nuociuto; siggillo  sigillo; parmigiano  parmiggiano; stagione  staggione; sugellare  suggellare; metereologo  meteorologo; areazione  aerazione; subito  subbito; tuttora  tutt'ora; finora  fin'ora; tuttuno  tutt'uno; (le) facce  (le) faccie; te    the (bevanda); d'altronde  daltronde; equo  ecuo; innocuo  innoquo; pressocché  pressoché; ovverosia  ovverossia; senz'altro  senzaltro; l'altranno  l'altr'anno; pedissequo  pedissecuo; bretone  brettone; pretenzioso  pretensioso;  ubbriaco  ubriaco; obbrobrio  obbrobbrio; ebrezza  ebbrezza; ebro  ebbro;  scorazzare  scorrazzare; anzi che  anzicché  anziché; obbedire  obedire; grattuggia  grattugia; soprasedere  soprassedere; gran che  granché  gran ché; digià  diggià; ostensione  ostenzione; israelita  isdraelita; esquimese  eschimese; l'etargo  letargo; accensione  accenzione; aqutezza  acutezza; assunsione  assunzione; (l')aradio  (la) radio; gattabbuia  gattabuia; ossecuiare  ossequiare; solluchero  sollucchero; bugia  buggia; psicologhi  psicologi; soddisfava  soddisfaceva; stomachi  stomaci; rivangare  rinvangare; estortore  estorsore; ecuadoriano  ecuadoregno; manutensione  manutenzione; fibia  fibbia; surettizio  surrettizio  suretizio; eclettico  ecclettico; ogniuno  ognuno; zabaione  zabaglione; quisquiglia  quisquilia; biliardo  bigliardo; sommergibbile  somergibile  sommergibile; elementarietà  elementarità; quotidianeità  quotidianità; quiescenza  quiescienza; salsiccia  salciccia; presciutto  prosciutto.
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Quando scriviamo - per restare in argomento - cerchiamo, dunque, di non CACOGRAFIZZARE.
Qui la coniugazione completa del verbo.

lunedì 17 aprile 2017

Norma ortografica e competenza linguistica. S.C. Sgroi


di Salvatore Claudio Sgroi *

È indubbio che, nella cultura italiana e non solo, un errore ortografico suscita spesso nel lettore una severa censura. E se l'errore può essere giustificato come "lapsus" in uno scrittore, non lo è certamente per il comune scrivente.
Eppure, l'errore di ortografia raramente può compromettere la comprensione di un testo, a differenza di un errore lessicale, o sintattico o testuale con contraddizioni, controsensi, oscurità, salti logici di tipo diverso. Il che dovrebbe far riflettere sull'opportunità di dedurre dal banale errore ortografico la "incompetenza linguistica" tout court. La riprova che l'errore ortografico è in realtà un errore, sì ma "veniale", è fornita proprio dagli scrittori, che non sono esenti da peccati ortografici, magari corretti, tacitamente o meno, da solerti editori.
La esemplificazione è agevole e facilmente arricchibile da parte del lettore.
Nell''800 c'è Verga: «diriggere un giornale» (1882), «diriggere le prove» (1882 e 1885), «diriggere l’esecuzione» (1888), «t’immaggini» (1878), «leggittimo» (1888), «leggittima aspettativa» (1876), «il privileggio» (1882); -- «cominciavo a dubbitare» (1887), «Non dubbiti»; -- «non transiggo» (1888), «Diriggo la presente a Catania» (1902); -- il segnaccento (di frase): «Te ne dò notizia» (1872), «Ti dò ancora a te questo altro incomodo del recapito» (1883); − su «quì» nei "Malavoglia" (1881) e su «quà» nel "Mastro-don Gesualdo 1888"; -- l’omissione del segnaccento sull’avverbio «si» (per ) ancora nel "Mastro".
Non diversamente Luigi Capuana: «esiggere delle migliaia di lire» (1881), «tale presaggio» (1879), «un tubo di latta siggillato» (1883); -- «Io lo esiggo» (1884), «con la salute non transiggo» (1883); -- il segnaccento:  «io non dò un’occhiata al ms!» (1882), «io mi dò di sprone ai fianchi» (1882), «Intanto ti dò una preghiera» (1883).
E pure L. Pirandello: «induggia» (1889?); -- «Non dubbitare, non dubbitiate, miei cari» (1890); -- «malandrini e biricchini» (1886), col derivato «biricchinata»; -- «anzicchè» (1891).
Il suffissato «ingegn-iere» per "ingegnere" è in Capuana: «potresti fare l’ingegniere e arricchirti» (1888). Nel '900 continua con L. Sciascia in "Il signor T protegge il paese" (1947): «un ingegniere francese», «un ingegniere ricco», e ne "La trovatura" (1961): «ingegnieri inglesi», «quell’ignegniere» (puristicamente emendati nella ried. adelphiana del 2010 pp. 209 e 197).
Il «qual'è», si potrebbe dire, è oggetto di continuo "stalking". Ma il qual'è si trova in scritti di due presidenti dell'Accademia della Crusca. G. Nencioni 1945: «Ma cos’è, in concreto la storia d’una lingua? Qual’è [sic!] il suo oggetto, quali i suoi limiti?» (Lezioni di Glottologia, Roma, p. 208). E G. Devoto 1955: «Qual'è la differenza tra dialetto e lingua?» (Il passaggio dal dialetto alla lingua, in "Scuola di base", p. 41). Senza dire dell'es. ne La grammatica degl’Italiani di Trabalza-Allodoli (1934): «l’interpunzione, qual’è stata stabilita» (p. 332), non refuso in quanto ritorna in tutte le riedizioni (fino al 1952).
Negli scrittori del Premio Strega ben 12 sono le occorrenze di «qual'è/qual'era» in 9 autori: da Berto (1947) a Parise (1965), passando per Palazzeschi (1948), Malaparte (1950), Moravia (1952), Calvino (1952), Morante (1957), Tobino (1962), Arpino (1964).
Inevitabilmente, l'apostrofo può "far senso" nell'es. «un'idioma» (col valore di "un'espressione idiomatica"), ripetuto due volte, in un saggio accademico (La linguistica italiana 1997-2010, Bulzoni 2013, p. 871), femminilizzato per (sospetta) influenza dell'87% dei femminili in "-a". Nello stesso scritto appare anche (due volte) «la sessione» del saggio (pp. 860, 861), con estensione semantica, a dir poco "osé(e)", del significato di «sessione» da temporale ("periodo") a spaziale ("sezione, paragrafo, §"). Errore non ortografico (di origine emiliana) ma semantico, decisamente popolareggiante.
Diciamo subito, per tranquillizzare il lettore e fugare il sospetto del "buonismo ortografico", che per conseguire una buona competenza ortografica, la strategia più redditizia sembra essere quella della (banale) abituale lettura. Chi legge poco è più portato a sbagliare la (orto)grafia delle parole. Grazie alle buone letture il parlante si abitua a interiorizzare la corretta corrispondenza "significato"/ "significante ortografico", ovvero a passare dal significante sonoro/ a "quello ortografico". È esperienza comune accertarsi della correttezza grafica di una parola non tanto pronunciandola quanto piuttosto vedendola scritta. Diciamo /abbile/, /raggione/, /azzione/, /penzare/, ma le (orto)grafie che si trovano leggendo sono quelle canoniche con una sola consonante o col nesso  'ns' . Ovviamente le parole rare o poco note sono a rischio, in quanto suscettibili di andare incontro a inconvenienti grafici, per es. "la recenZione (di un libro)"; "la intenSione (dei logici)" ma "la intenZione del parlante". Le regole esplicite, di ordine etimologico o funzionale (interferenza con la pronuncia regionale), possono naturalmente favorire l'apprendimento, ma solo secondariamente, e sviluppano più che altro i livelli cognitivi e metalinguistici dello scrivente. (Al riguardo una lettura salutare per tutti gli insegnanti dovrebbe essere il vecchio ma insuperato e attualissimo saggio del 1969 di T. De Mauro, "Scripta sequentur (a proposito degli «sbagli» di ortografia)", ristampato per es. in Scuola e linguaggio, Editori Riuniti 1977, pp. 55-65).
In altra occasione proveremo a indicare dei criteri di valutazione (con i voti) degli "errori/sbagli" di ortografia. Che non dovrebbero insomma impedire di valutare la validità del contenuto di un testo. Il problema vero del parlante, scrittore o meno, è quello della "verbalizzazione" del trovare cioè le parole più adatte per dare forma ai propri pensieri, in maniera soddisfacente e comprensibile per sé e per gli altri. Un lavorio 'eterno' e perfettibile, all'infinito. I "nèi" ortografici per brutti che siano sono solo dei "nèi".


* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania

Autore tra l'altro di
--Per una grammatica ‘laica’. Esercizi di analisi linguistica: dalla parte del parlante (Utet 2010);
-- Scrivere per gli italiani nell'Italia post-unitaria (Cesati 2013);
--Dove va il congiuntivo?  (Utet 2013);
-- Il linguaggio di Papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticali (Libreria Editrice Vaticana 2016)