venerdì 31 marzo 2017

Che bella catagrafe!


La parola proposta da questo portale, e ci auguriamo che sia "rispolverata", è: catagrafe.  Sostantivo femminile, di provenienza ellenica, che sta per "immagine (pittura) di profilo".
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Essere piú povero di S. Quintino
«Caro figliolo, sono finiti i bei tempi delle vacanze lussuose, delle crociere, dei bei vestiti e del superfluo; ci aspettano periodi neri, siamo ridotti alla fame; la nostra azienda è fallita, siamo piú poveri di S. Quintino. Cerca, pertanto, di trovarti un'occupazione, io non posso piú mantenerti». Queste tremende parole sconvolsero l'esistenza del giovane rampollo-bene, che per notti intere non riuscí a prendere sonno. Ma che cosa c'entra S. Quintino con il fallimento dell'azienda? C'entra, eccome! Il padre, infatti, voleva mettere in evidenza lo stato di povertà in cui erano caduti improvvisamente, con il crollo finanziario, tanto da essere piú poveri del Santo che, si dice, "sonava a messa co' tegoli" non possedendo i soldi per l'acquisto di una campana. Il modo di dire può derivare, infatti, dall'usanza di battere una tavola adoperandola a mo' di campana. Anticamente i Cappuccini, amantissimi della povertà volontaria, erano soliti chiamare alla messa i confratelli, non con una campana, appunto, ma percotendo una tavola con un pezzo di legno nodoso.

mercoledì 29 marzo 2017

Pillole di "buona lingua" (3)


Cadavere è un sostantivo, non è corretto, pertanto, il suo uso come aggettivo. Sulla stampa si leggono molto spesso frasi tipo "la donna scomparsa è stata trovata cadavere in fondo al burrone". Correttamente: la donna è stata trovata morta...
Carcere, nella forma plurale è tassativamente di  genere femminile: il carcere / le carceri.
Cerbero, sostantivo maschile e tale resta anche riferito a una donna: Giovanna è proprio un cerbero. Stessa "norma" per quanto attiene al sostantivo cireneo: Luisa è il cireneo della squadra.
Colare, nei tempi composti prende entrambi gli ausiliari, con un distinguo, però: si userà l'ausiliare essere se si prende in considerazione il liquido (il vino è colato tutta la notte dalla botte); l'ausiliare avere  riferito al contenitore (la botte ha colato tutta la notte).
Cosiddetto, si può scrivere anche in grafia analitica (due parole). Il nome che segue non va mai tra virgolette: i cosiddetti / cosí detti antagonisti (non: cosiddetti "antagonisti").
Divisa, si fa seguire dalla preposizione "di" quando il sostantivo sta per "uniforme": divisa di carabiniere, divisa di vigile urbano ecc. La preposizione "di" specifica, infatti, di "quale" divisa si tratta.
Ninnananna, si può scrivere anche in grafia analitica (ninna nanna). Nella forma plurale, tanto in grafia scissa quanto in quella univerbata, entrambe le "a" mutano in "e": ninne nanne e ninnenanne.
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La parola proposta da questo portale: padulingo.  Aggettivo tratto da "padule", variante toscana di palude, sinonimo di paludoso.

martedì 28 marzo 2017

"Lei" e "le", pronomi personali «ermafroditi»


Mariangela Galatea Vaglio, sul settimanale L'Espresso in rete, ci fa sapere che «I pronomi femminili “lei” e “le” sono casi atipici: infatti sono gli unici che possono indicare anche un maschio».  Attenzione, però, alle concordanze: possono causare dei problemi. A tal proposito riproponiamo un nostro vecchio intervento.
“Lei è veramente buona, signor capitano, nel concedermi la licenza”, disse la recluta irrigidita sull’attenti. Il giovanotto, però, dieci minuti piú tardi, anziché sul treno diretto a casa, si ritrovò, piangente, in cella di rigore: quel “buona” aveva offeso l’ufficiale, colpito nella sua “virilità”.
   Vediamo, quindi, le concordanze delle varie parti del discorso quando si usa il “lei” allocutivo, il cosí detto lei di rispetto.
   La logica vuole che le voci verbali diventino femminili perché “lei” è, appunto, un pronome personale di terza persona singolare femminile. Diremo, quindi, “lei è invitata alla cerimonia”, oppure “lei è stata rimproverata per…” tanto riferito a una donna quanto a un uomo.
   Quando in una frase c’è un aggettivo con funzione di predicato, secondo la norma logico-grammaticale, dovremmo, dunque, metterlo al femminile e dire “lei è cattiva e presuntuosa” sia con riferimento a un uomo sia con riferimento a una donna?
In casi del genere occorre affidarsi al buon senso; se il ”lei” si riferisce a un uomo, le voci verbali e gli aggettivi saranno, ovviamente, maschili: lei è buono, signor capitano. Saranno rigorosamente femminili, invece, le particelle pronominali (anche se si tratta di un uomo): signor capitano, la prego, mi conceda una breve licenza.
   Rivolgendoci a piú persone il “lei” diventa, naturalmente “loro” e segue le medesime “regole” che sono state menzionate per il “lei allocutivo”: signori, loro almeno, siano tanto comprensivi nei nostri riguardi; signore, siano sempre buone con i loro pargoletti.
 Va da sé che quando si adopera la perifrasi dell’eccellenza vostra, signoria vostra, ecc., si deve mettere tutto al femminile (verbi, aggettivi, pronomi).

lunedì 27 marzo 2017

Perché «più peggio» no, ma «meno peggio» sì? S.C. Sgroi


di Salvatore Claudio Sgroi *

 Una frase come (i) "Più peggio di così non poteva andare" è da tutti i parlanti mediamente colti giudicata errata, anche se comprensibile, in quanto tipica dell'italiano popolare, proprio cioè dei parlanti poco acculturati, che poco contano nella società. Il costrutto "corretto" è invece (ii) "Peggio di così non poteva andare", tipico dell'italiano colto dei parlanti mediamente colti. Entrambi i tipi di comparativo di maggioranza (i) "più peggio" e il semplice (ii) "peggio" sono costruiti a partire da due diverse regole di formazione del comparativo di maggioranza in italiano. La Regola-1 del comparativo (i) analitico "più + aggettivo", vitalissima, è propria degli aggettivi qualificativi, es. "più bello", ecc. La Regola-2 del comparativo sintetico (ii) "peggio" è di tipo etimologico, in quanto basato sul latino "peius". E riguarda pochi altri aggettivi e avverbi: "peggiore", "meglio/migliore", "superiore", "inferiore". Il costrutto popolare (i) "più peggio" è quindi basato sulla Regola-1 non etimologica, decisamente la più diffusa e produttiva in italiano. E il termine "peggio" è in questo caso analizzato come semplice aggettivo. E analogamente col superlativo relativo di maggioranza (popolare) "il più peggio possibile" e col superlativo relativo di minoranza (colto) per es. "Ebbene, bisognava che vedesse fin da principio il meno peggio possibile" (Pirandello 1928), "Il ritratto che feci di loro a gruppo, è certo la meno peggio delle cose mie" (Pirandello 1926) o "tanto per ricordarne due fra i meno peggio" (R. Serra 1915). A questo punto il lettore può chiedersi, un pò logicisticamente, ma perché mai «più peggio» no? (ovvero è normativamente errato), ma «meno peggio» sì? (ovvero è normativamente corretto)?. Ovvero si può dire per es. "È andata più peggio di quanto ti aspettassi"?. No! Invece: "È andata meno peggio di quanto mi aspettassi"?. Sì!.

Elementare Watson! L'agg. "peggio" è (etimologicamente, in latino) comparativo di maggioranza e non già di minoranza. Ed è quindi percepito come semplice aggettivo dai parlanti colti al momento di formare un comparativo (o superlativo relativo) di minoranza. Per cui: "È andata meno peggio di quanto ti aspettassi". E ancora "alla meno peggio", documentato stando al DELI av. 1898 con L. Codemo e nella LIZ con G. Abba 1904 e R. Zena 1917. Il lettore può sbizzarrirsi a documentarsi con altri ess. letterari di "meno peggio". Nel "Primo tesoro della lingua letteraria italiana del Novecento", costituito dai romanzi Strega del sessantennio 1947-2006 (De Mauro 2007), c'è M. Soldati 1954: "Ma poi facemmo la pace, e fu un po' meno peggio delle altre volte". Nella LIZ può trovare ancora una decina di ess. Nel '900 c'è Pirandello (1910): "Perché è sempre meglio per i figliuoli... cioè, meglio no: meno peggio - sosteneva la moglie - che muoja il padre, anziché la madre". Nell'800 appaiono invece De Roberto 1894: "forse oggi staremmo meno peggio"; De Amicis 1891: " La sua classe era meno peggio di quello che si fosse immaginata"; Fogazzaro 1885: "ma meno peggio di quel che temevo"; D'Azeglio 1866: "è di gran lunga meno peggio dell'altro", "infinitamente meno peggio di quello che stabilì il cardinale Consalvi e seguito", e nel '500 anche il Bandello (1554): "e non di meno peggio fanno che prima"! Quanto al popolarissimo "più meglio", non manca un es. di Fogazzaro (1881): "Potevano metterci nome l'Alpe del diavolo ch'era più meglio", e uno del '500 di F. Belo (1529): "E lo mio è più meglio".

E "meno meglio"? Il lettore curioso potrà continuare la ricerca in Google.

   *Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania.

Autore tra l’altro di
--Per una grammatica ‘laica’. Esercizi di analisi linguistica: dalla parte del parlante (Utet 2010);
-- Scrivere per gli italiani nell'Italia post-unitaria (Cesati 2013);
--Dove va il congiuntivo?  (Utet 2013);
-- Il linguaggio di Papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticali (Libreria Editrice Vaticana 2016)

domenica 26 marzo 2017

Essere un lavativo


Questo modo di dire dovrebbe essere familiare a coloro che hanno svolto il servizio militare di leva (quando era obbligatorio) e agli amanti del teatro perché la locuzione si rifà a quegli ambienti. In gergo teatrale, infatti, si adopera l'espressione suddetta  riferita a un'opera monotona e fiacca che gli interpreti  ritengono al di sotto delle loro possibilità; oppure a una parte di poca importanza, senza rilievo, sostenuta malvolentieri dagli attori. Nel gergo militare, invece, il lavativo è colui che si sottrae ai propri doveri e ai compiti che gli vengono affidati; un fannullone, uno scansafatiche, insomma. L'origine del modo di dire non è chiara; la nostra, quindi, è un'ipotesi del tutto personale. Il "lavativo" è il nome popolare dell'enteroclisma che - come sappiamo - molto spesso serve alle persone ammalate, soprattutto a coloro con problemi intestinali. In senso figurato, pertanto, il lavativo è una persona malaticcia. Coloro che cercano di evitare ogni fatica; le persone indolenti; le persone pigre si comportano, quindi, come i lavativi, vale a dire come i malaticci. Dimenticavamo: un uomo scansafatiche sarà un lavativo, una donna una lavativa.

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La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": soverchio.


sabato 25 marzo 2017

Pillole di "buona lingua" (2)


Aggiungere. Riteniamo inutile "aggiungere" a questo verbo la congiunzione "anche": aggiungi  anche il sale alla lista della spesa. Aggiungere sta pure per anche, come per inoltre, ancora.
Altrettanto, avverbio,  aggettivo e pronome "quantitativo". In funzione aggettivale o pronominale si accorda con il sostantivo cui si riferisce:  ho comprato cinque pacchetti di caramelle, e tu? Altrettanti.
Autoaccusarsi, autodenunciarsi e simili. Espressioni da evitare, anche se correntemente in uso. La particella pronominale "si" è insita nel prefisso "auto-". Non diremo o scriveremo, quindi, il pentito si è autoaccusato, bensí il pentito si è accusato del reato.
Binario (del tram o del treno) alla lettera sta per "coppie di rotaie". Non è corretto, pertanto, dire o scrivere i due binari.
Brillare, nell'accezione di "distinguersi" (brillare per l'assenza), è un gallicismo da evitare in buona lingua italiana.
Declinare. Non si adoperi questo verbo nell'accezione, anche se in uso,  di ricusare, rifiutare e simili. Un'offerta, un invito non si declinano, si rifiutano, non si accettano.
Portafogli  e portafoglio, non si adoperino indifferentemente. Il primo indica la custodia di pelle per banconote e documenti; il secondo per designare la funzione di un ministro che, pur nel governo, non è titolare di un dicastero: ministro senza portafoglio.

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La parola proposta da questo portale, tratta da "garzantilinguistica.it": rugine. Sostantivo femminile del gergo chirurgico: strumento per raschiare l'osso.

rugine

n.f.

 (chirurgia) raschiatoio (m.).

venerdì 24 marzo 2017

Signora o signorina?

A questo quesito risponde Paolo D'Achille (Crusca).
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La parola proposta da questo portale e non a lemma nei maggiori vocabolari dell'uso: icetèrie. Sostantivo femminile plurale con il quale si indicavano, nell'antica Grecia, le feste di carattere espiatorio. Si veda anche qui.




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Martedí scorso, in questo intervento, scrivevamo che non ci saremmo mai rassegnati davanti agli "strafalcioni" che la stampa ci "propina" - come suol dirsi - a ogni piè sospinto. Da un quotidiano in rete:
"Toglieva le multe a parenti e amici"
Non è abuso d'ufficio, vigilessa assolta

L'argomento, amici lettori, è trito e ritrito: una donna che appartiene al corpo dei vigili urbani è una "vigile".
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Nota d'uso (De Agostini)
Il nome vigile, secondo le normali regole della lingua italiana, è maschile o femminile secondo se si riferisce a uomo o a donna: il vigile, la vigile. È in uso anche vigilessa, che però può avere anche tono scherzoso o valore spregiativo, come tradizionalmente hanno avuto diversi femminili in -essa. Alcuni poi preferiscono utilizzare il nome vigile al maschile anche per una donna (il vigile Giovanna Giovannoni, ndr). Si tratta di una scelta che non ha basi linguistiche, ma sociologiche, e che comunque può creare, nel discorso, qualche problema per le concordanze. Il vigile urbano può avere nomi diversi a livello regionale: per esempio ghisa a Milano (per allusione scherzosa al cappello alto e rigido della divisa tradizionale), civico in alcune regioni dell’Italia settentrionale e pizzardone a Roma. Si tratta però di denominazioni antiquate, sempre meno usate se non quando si vuol fare del “colore locale”.



giovedì 23 marzo 2017

Pillole di "buona lingua"

Due parole, due, sul verbo partire: molti lo  adoperano "alla francese" con l’accezione di ‘uscire’, ripetendo l’uso del francese partir. È un uso improprio, se non ‘errato’ perché, come fa notare il linguista Giuseppe Rigutini,  partire include sempre il fine di un viaggio. Sbagliano coloro che dicono, per esempio, “parto ora dall’ufficio, sarò da te fra un’ora”. Dall’ufficio si “esce”, non si “parte”. Si parte quando si lascia una località per andare in un’altra. Diremo correttamente, quindi, “domani partiremo da Cosenza per Reggio Calabria”. E sempre a proposito di partire, lasciamo al gergo burocratico l’espressione a partire da: a partire da domani gli uffici saranno chiusi al pubblico tutti i giovedí. Chi ama il bel parlare e il bello scrivere dirà: da domani o cominciando da domani o, ancora, da ...
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Daccanto e d'accanto. Si presti attenzione ai due termini perché non hanno lo stesso significato; non si possono adoperare, quindi, indifferentemente. Daccanto è una locuzione avverbiale che vale vicino, accanto, dappresso (anche in grafia analitica: da presso) e simili: erano seduti l'uno daccanto all'altro. D'accanto corrisponde, invece, a di torno, da vicino: fammi il favore, togliti d'accanto!
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Datare, verbo transitivo.  Significa, propriamente, mettere la data, porre la data. Molti lo adoperano "alla francese", dandogli un' «intransitività» (che non ha, appunto),  nell'espressione a datare da... Si dirà, correttamente, a cominciare da... e simili.
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Economizzare. Verbo che riprende pari pari il francese économiser. Chi ama la buona lingua dirà, italianamente, risparmiare o ricorra alla locuzione fare economia.
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Eclissarsi. Altro verbo "francesizzante" (s'éclipser). Gli amatori della buona lingua useranno, per dire che una persona è andata via furtivamente, i verbi italiani scomparire, svignarsela, andar via alla chetichella ecc.
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La parola proposta da questo portale:  babboccio. Aggettivo e sostantivo maschile, sinonimo di "babbeo".
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In un forum sulla lingua italiana un "forumista" ha posto questa domanda:
Nella frase "Mi fido di te", "di te" è complemento di specificazione o cosa?
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La risposta - a nostro avviso - non può essere che una. Complemento di specificazione:  "specifico" la persona della quale posso fidarmi. Il complemento di specificazione, generalmente, dipende da un sostantivo, ma può essere introdotto anche da alcuni verbi intransitivi come: abusare, disporre, ridere, sapere, accorgersi, accontentarsi, fidarsi, ricordarsi.

mercoledì 22 marzo 2017

La lingua «americana»




Con la scoperta del "Nuovo Mondo" (XV secolo) sono entrate nel nostro idioma altre parole perché gli scopritori si trovarono a dover designare gli oggetti, le piante, gli animali, i fenomeni che esistevano nel mondo nuovo e non nel nostro, cosí parecchi di quei nomi - entrati nel nostro lessico - finirono col diventare comunissimi. Basti pensare che provengono dall'America le patate, il granturco, i pomodori, i tacchini, i fagioli e le mele. Oggi nessuno, quando va al mercato a comprare un chilo di patate, per esempio, sa di adoperare un "americanismo" tanto è comune, ormai, questo nome. E a proposito di piante provenienti dal nuovo mondo, i linguisti di allora si trovarono di fronte a un dilemma: o accettare i nomi adoperati dagli indigeni o coniare nuovi termini. Furono seguite ambedue le strade. Per le patate, per esempio, fu conservato il nome americano un po' alterato; per il pomodoro i linguisti hanno creato un nome nostrano. Ancora oggi, a distanza di secoli, c'è oscillazione tra le due strade per quanto riguarda il nome di una pianta: il granturco. Chi lo chiama con il nome americano "mais", chi con quello italiano "granone", "frumentone", "granturco". Perché "grano turco" si domanderà - giustamente - qualcuno? La Turchia che cosa c'entra? Nulla, assicurano storici e botanici. Colombo ci fa sapere di aver portato lui stesso i semi di quella pianta in Spagna, di ritorno dal suo primo viaggio "americano". Perché turco, dunque? Perché l'aggettivo turco - secondo i vocabolari - va inteso come "esotico". Di diverso avviso, invece, il linguista Ottorino Pianigiani. Provengono dall'America anche i cosí detti fichi d'India, cosí denominati perché "provenienti dalle Indie" (senza specificare se venissero proprio dall'India o dal nuovo mondo che, a causa del suo errore geografico, il grande navigatore riteneva essere l'India). Annoieremmo i lettori se elencassimo tutti i "termini americani" entrati a pieno titolo nella nostra lingua, nel Cinquecento e nei secoli successivi, per designare animali e piante, cibi e bevande e altri oggetti di uso comune. Vale la pena, però, citare alcuni nomi di animali di cui si ha conoscenza attraverso gli zoo, come i 'giaguari', i 'lama', i 'mandù', tutti animali che non si sono acclimatati nel vecchio mondo (Europa). Tra le piante citiamo la 'china' e la 'coca' oltre al famoso legno pregiato 'mogano'. E concludiamo queste noterelle con il "cannibale", nome adoperato per indicare un antropofago, che in realtà non è che l'uso estensivo del nome proprio di una popolazione delle Antille: Cannibali o Caribi. Bisogna anche ricordare, però, che non tutti gli americanismi entrarono nella nostra lingua subito dopo la scoperta del nuovo mondo, ma nei secoli successivi, a mano a mano che giungevano altre notizie dal... Mondo Nuovo.

martedì 21 marzo 2017

Un posto "da" o un posto "di"?


No, non ci rassegniamo e continuiamo con i nostri lai. Abbiamo sempre sostenuto la tesi secondo la quale la stampa deve divulgare le notizie nel rispetto delle regole orto-sintattico-grammaticali della lingua italiana. Purtroppo queste regole vengono sempre piú disattese da coloro che per mestiere "propagano" la lingua, o perché non le conoscono o perché - cosa ancora piú grave - pur conoscendole non le rispettano in quanto, presuntuosamente, si sentono i "depositari della verità linguistica" e la diffondono, pertanto, a loro piacimento. No, non ci rassegniamo e continuiamo con i nostri lai. Una prova provata  (un'altra, fra le tante) si ha in questo titolo di un quotidiano in rete:

Sesso per un posto da titolare in squadra: arrestati due allenatori di calcio giovanile
Sedicenne li denuncia, coinvolto anche arbitro
Mancini: "Abusi su minori? Fenomeno esiste"

Quel "da" è tremendamente errato. La preposizione corretta da adoperare è "di" perché non siamo in presenza di un complemento di fine o scopo retto, appunto, dalla preposizione da;  ci troviamo davanti a un normalissimo complemento di specificazione. Il "posto"  - per dirlo terra terra - quando vale "incarico", "impiego" si fa seguire dalla preposizione "di": un posto (incarico) di direttore d'orchestra; un posto di assessore; un posto di operatore ecologico. In questi casi si specifica, infatti, il "tipo" di posto o di impiego.
Treccani: 6. a. (posto, ndr)  Impiego, ufficio che costituisce l’occupazione abituale e da cui si traggono, tutti o in parte, i mezzi di sostentamento: essere alla ricerca di un p.; trovare un p.; offrire, procurare un p.; avere un buon p., un ottimo p., un p. misero, modesto; perdere, conservare il p.; ci tengo al mio p.!; seguito dalla specificazione dell’impiego:  mettere a concorso trecento p. di maestro; è vacante il p. di segretario, di redattore capo; anche con riferimento a cariche elevate: aspirare a un p. più alto; si sono presi i p. migliori; avere, occupare un p. di grande responsabilità; essere ai p. di comando.

lunedì 20 marzo 2017

«A piè di» o «a pie' di»? S.C. Sgroi


di Salvatore Claudio Sgroi *

Un collega filosofo si stupisce di essere stato corretto dal collega letterato riguardo all'espressione «a pie' di» (con l'apostrofo dell'apocope/troncamento) sostituita dalla forma «a piè di» (con segnaccento) in quanto, pur essendoci apocope/troncamento, si tratta di una «eccezione».
Il linguista invero storce il naso dinanzi all'invocazione della «eccezione», tradizionale strategia della grammatica scolastica. Ma "epistemologicamente" un vero tallone d'Achille per una teoria (tradizionale o meno) che aspiri a un minimo di coerenza.
I due usi, per il linguista, hanno invero alla base due diverse regole. La regola [= R-1] del filosofo è quella storico-etimologica: «pie'» deriva da «piede», presente in altri pochi casi come «un po'» derivante da «un poco»; oppure «a mo' di» derivante da «a modo di», ecc. Ed è la regola seguita da G. L. Messina Parole al vaglio 1973 (pp. 415, 31; e 1983 pp. 485, 36) e preferita da A. Gabrielli 1974 in Come parlare e scrivere meglio (p.119).
L'«eccezione» del letterato «piè» si fonda invero su una diversa regola [= R-2], sincronica e vitale della fonologia-ortografia dell'italiano, secondo cui le parole ossitone/tronche (circa 2.700 in un vocabolario come quello di T. De Mauro 2000) portano il segnaccento sull'ultima (cfr. «bontà, ahimè/scimpanzé, finì, portò, virtù»). E quindi «piè», peraltro ben diverso dal bisillabo «pie (donne)».
 Il filosofo (con il citato Messina 1973) attiva con coerenza teorica solo la R-1 (storico-etimologica), es. «un po'», «a pie' di», «a mo' di».
Il letterato ha invece nella sua grammatica, per lo stesso fenomeno di apocope/troncamento, due regole opposte. Applica infatti ora la  storico-etimologica per «un po'», ora la sincronica in «a piè di».
Quanto al problema della correttezza, ovvero della «norma» o uso riconosciuto e approvato, i grammatici/lessicografi approvano gli usi della R-1 (storico-etimologica) per «un po'», ma non per «a pie' di», e gli usi della R-2 (sincronica) per «a piè di» ma non per «un pò». Per Serianni 1988 è «da evitare la grafia pie'» (§ I.78.a), seguito da Della Valle-Patota (Piuttosto che 2013 p. 102) e dal DOP on-line.
Se il criterio della correttezza (e della norma) è invece fissato non aprioristicamente, ma dando la priorità ai parlanti-scriventi colti, è possibile ri-standardizzare non solo la grafia (fonologica) di «un pò» (come proposto in un precedente nostro intervento «"Un pò" sbagliato? E perché?» del 7 febbraio (link), ma anche la grafia (etimologica) di «a pie' di».
Nel Primo tesoro della lingua letteraria italiana del Novecento, costituito dai romanzi Strega pubblicati nel sessantennio 1947-2006, a cura di T. De Mauro (2007), la grafia etimologica «a pie' di» appare tre volte nell'arco di un venticinquennio (1951-1975). Ovvero in C. Alvaro (1951): «Pie' di Marmo»; in Emilio Gadda (1953): «pie' nudi»; e in T. Landolfi (1975): «a pie' della scala».
La grafia fonologica «a piè di» è invece più frequente con 22 occorrenze in 15 opere di 14 autori nell'arco di un cinquantennio (1952-2002). Ovvero in: Moravia 1952 («a ogni piè sospinto»), Gadda 1953 («con un piè di cavallo», «a piè degli ideali», «a piè dei larici»), Bassani 1956 («a piè dei bastioni», «saltare a piè pari»), Tomasi di Lampedusa 1959 («con piè leggero»), Parise 1965 («sotto il piè»), Ortese 1967 («a piè della scala»), Campanile 1974 («a piè della scesa», «Via Piè di Marmo»), Landolfi 1975 («ad ogni piè sospinto»), Primo Levi 1979 («a piè d'opera»), Pomilio 1983 («a piè d'una memoria»), Magris 1987 («a piè pagina», «a piè di pagina» con altri 2 ess. nel 1997), Vassalli 1990 («a piè del monte»), Ferrero 2000 («a piè fermo», «a piè di pagina»), Rea 2002 («a piè di pagina»). Uno stesso autore (Gadda) ricorre peraltro alle due grafie.
Stando così le cose, non è allora legittimo ritenere errata la grafia etimologica «a pie' di» solo perché minoritaria rispetto alla grafia fonologica «a piè di», in rapporto di 1 a 7. Si tratta invero di grafia presente in autori colti, con diversa preferenza. Google libri permette di documentare per il lettore paziente altri usi con la grafia etimologica.
Morale della favola: ri-standardizziamo allora la grafia «a pie' di»!

* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania

domenica 19 marzo 2017

Il Gabrielli "ritoccato"


Ormai non abbiamo piú dubbi: l'ottimo vocabolario della lingua italiana di Aldo Gabrielli è stato completamente rovinato dai suoi revisionisti.  Il femminile di soldato, per costoro, è "soldatessa" e, non comune, "soldata". Povero professor Gabrielli, si starà rivoltando nella tomba alla vista delle smarronate che i revisori hanno "introdotto" nel 'suo' dizionario. Non occorre ripetere che il femminile corretto di soldato è "soldata", la forma in "-essa"  è spregiativa o "ridicolizzante".  Dal Gabrielli in rete:  «soldato
[sol-dà-to] (part. pass. di soldàre). A agg. ant. Assoldato, al soldo di un padrone, spec. di milizie mercenarie. B s.m. (f. ⇨ soldatéssanon com. soldata)». Ancora. Ecco come il vocabolario revisionato "liquida" il sostantivo guardaroba: «guardaroba [guar-da-rò-ba] s.m.raro s.f. (pl. i guardarobararo le guardaroba f.)». Il Maestro, invece, nel suo "Dizionario Linguistico Moderno" scrive: «La persona addetta alla guardaroba, plurale maschile i guardaroba; plurale femminile le guardarobe; la stanza o l'armadio, (sostantivo femminile) plurale guardarobe».

sabato 18 marzo 2017

La grammatica? Una teoria al servizio della lingua (2). S.C. Sgroi

Il prof. Salvatore Claudio Sgroi risponde alle obiezioni dei lettori



Il riflettere sulla lingua nativa o altrui, della propria comunità o di altre, è pressoché naturale, a partire dai primi anni di vita, con risposte ingenue o sofisticate, pur sempre culturali, interiorizzate nel corso della propria vita sociale.

È normale peraltro che le proprie convinzioni culturali sulla lingua possano essere non condivise dagli altri. Il lettore può così confrontare le proprie idee meta-linguistiche con quelle qui presentate, di illustri letterati, linguisti, pedagogisti, filosofi, psicologi, che hanno espresso un loro preciso punto di vista.

Domanda n.1: "Qual'è [sic!] il rapporto tra il linguaggio e le cose, la realtà?". Risposta: "La parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile, alla cosa assente, alla cosa desiderata o temuta, come un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto. Per questo il giusto uso del linguaggio per me è quello che permette di avvicinarsi alle cose (presenti o assenti) con discrezione e attenzione e cautela, col rispetto di ciò che le cose (presenti o assenti) comunicano senza le parole" (Italo Calvino, scrittore, 1985).

Domanda n. 2: "Come imparare una lingua?". Risposta: "Le lingue si imparano a fondo non sulle pagine della grammatica [teorica], ma con lo studio degli scrittori e con l’imitazione dell’uso vivo" (Alfredo Trombetti, linguista, 1918). Ovvero: "Si può conoscere bene la lingua nostra, e parlare e scrivere garbatamente, solo quando si sono fatte ricche e varie letture, anche senza grande studio della grammatica [teorica]. Ma con la sola ed arida grammatica [teorica], colle sole sue povere,imprecise e incomplete regole, non si acquista che... quasi nulla" (Giuseppe Lombardo Radice, pedagogista, 1906).

Domanda n. 3: "Perché insegnare la grammatica?". Risposta: "Con questo non voglio dire che le grammatiche debbano buttarsi tutte al fuoco: la grammatica deve essere insegnata, ma non per fare imparare la lingua, anzi quando la lingua è imparata: e perciò non ai bambini, sibbene ai giovani, per dare la coscienza riflessa della lingua, che già si presuppone imparata e nota; coscienza riflessa che è una miglior conoscenza di ciò che già si conosce" (Giovanni Gentile, filosofo, 1900).

Domanda n. 4: "Che cosa correggere degli alunni?". Risposta: "Ogni bravo insegnante [...] non corregge sopra un modello arbitrario e meccanicamente gli scritti dei suoi allievi, ma mettendosi nello spirito di ciascuno, mostra a ciascuno quel che veramente intendeva dire e non ha detto. Non uccide l'individualità degli scolari, ma fa sì che ciascuno ritrovi veramente sé stesso" (Benedetto Croce, filosofo, 1906).

Domanda n. 5: "Quali sono i diritti e doveri del parlante?". Risposta: "La lingua italiana è il cemento della società. Di fronte alla lingua tutti sono uguali nel diritto-dovere, di libertà e di precisione nel proprio esprimersi, e di rispetto per il concittadino, perché comprenda" (Giacomo Devoto, linguista, 1964).

Domanda n. 6: "Come ottenere una efficace educazione linguistica?". Risposta: "il peggiore metodo pedagogico è l’introduzione intensificata e persistente, nella coscienza dell’educando, di quegli atti che non deve compiere. Il precetto «non fare una certa cosa» è già un impulso al compimento di questa azione per il fatto di portare alla coscienza il pensiero di un atto simile e, di conseguenza, la tendenza alla sua realizzazione" (Lev S. Vygotskij, psicolinguista russo, 1926).

Altre domande con altre risposte in altri "Commenti".




Copricapo, invariabile?

Se non cadiamo in errore, una regola grammaticale stabilisce che il plurale di parole composte con una forma verbale e un sostantivo maschile (singolare) si ottiene modificando il sostantivo: marciapiede, marciapiedi. Abbiamo notato, però, che non tutti i vocabolari concordano su questa regola. Per quanto attiene al plurale di “copricapo”, per esempio, alcuni dizionari non riportano il plurale (il che lascia supporre che il plurale si forma secondo la regola su riportata); altri ammettono l’invariabilità (i copricapo) e il plurale normale (copricapi); il Dop, però, specifica che la forma invariata è meno comune. Il Devoto-Oli compatto, edizione 2006/2007 con Cd-Rom, registra esclusivamente l’invariabilità del termine; lo stesso vocabolario, però, riporta “coprifuochi” quale plurale di coprifuoco. Non è lo stesso caso di “copricapo”? Perché “due pesi e due misure”? Perché, insomma, “i copricapo” e “i coprifuochi”?
Ma torniamo un attimo al Dop che – a nostro avviso – confonde un po’ le idee per quanto riguarda la formazione di alcuni plurali: copricapo, copri
capi; copribusto (invariabile); copricalice (invariabile); coprifuoco, coprifuochi; copriletto (invariabile).
Se la regola sopra citata non è errata come si spiega questa “anarchia “ nella formazione di alcuni plurali? Vediamo, infine, come "la pensano", sempre sul copricapo, alcuni vocabolari: De Mauro, non specifica (quindi variabile); Devoto-Oli, invariabile; Gabrielli, non specifica (quindi variabile); Garzanti, variabile; Sabatini Coletti, non specifica (quindi variabile); Zingarelli, non specifica (quindi variabile); De Agostini, variabile; Sandron, variabile/invariabile; Palazzi, non specifica (quindi variabile). Una rapida ricerca con
Googlelibri, infine, contraddice la maggior parte dei vocabolari privilegiando l'invariabilità del termine: 64.500 occorrenze per "i copricapo" e 13.500 per "i copricapi". Come regolarsi, dunque?


Qui, il plurale di un gran numero di parole composte.


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La grillina Aiuto si autosospende per l'inchiesta sui rimborsi Ue  
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"Autosospendersi"  (si autosospende), anche se a lemma in alcuni vocabolari (tra i quali il Gabrielli, e la cosa ci meraviglia, e non poco: probabilmente è stato inserito da qualche "ritoccatore"), non ci sembra corretto - a nostro modo di vedere - perché la particella pronominale "si" è insita nel prefisso
"auto-", che significa "da sé". Quindi - sempre secondo il nostro modo di vedere - la forma corretta è/sarebbe: «La grillina Aiuto si sospende per l'inchiesta [...]». Sull'uso del prefisso "auto-" si veda qui il nostro "pensiero".


venerdì 17 marzo 2017

Ancora sulla "lingua" della stampa


Da un quotidiano in rete:
Parioli, aggredisce giudice sotto casa
armato da coltello da sub: arrestato
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Ci dispiace, ma ancora una volta dobbiamo denunciare la lingua "biforcuta" della stampa. Si parla tanto, in questi ultimi tempi, del degrado della lingua italiana e i media non fanno nulla per "sdegradarla", anzi... Vi sembra corretto, nel titolo in questione, l'uso della preposizione "da" in luogo della sorella "di"? A noi, francamente, no. Ma diamo la "parola" al vocabolario Treccani: «armato agg. [part. pass. di armare]. [...] essere a. di fucile, di pistola, e per estens., di bastone, degli attrezzi occorrenti, di coraggio; [...]».