martedì 31 gennaio 2017

Io calàmito o calamíto?


Da "Domande e risposte" del sito Treccani:

Ho consultato due dei maggiori repertori di dizione italiana, il DOP suggerisce (io) calamìto, il Dipi (egli) calàmita[no]: qual è la giusta accentazione per le voci del verbo calamitare?

Il Dipi tiene conto delle pronunce reali diffuse nell'uso: la terza persona singolare dell'indicativo, si presta in effetti a una dissimilazione, nel timore probabilmente, da parte dei non pochi parlanti, di confondere il sostantivo calamita con la forma verbale omonima. Ma il verbo calamitare, nelle forme rizotoniche del presente indicativo, ha una normale accentazione piana (calamìto, calamìti, calamìta), come altri verbi della prima coniugazione pentasillabici per es. scaraventare, improvvisare). E il DOP registra la normalità della norma.

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La risposta - a nostro modestissimo parere - avrebbe dovuto essere piú "completa" (e articolata). Il presente indicativo del verbo in questione non ha tutte le sei persone nelle forme rizotoniche (con accentazione sulla  radice). Sono rizotoniche le prime tre e l'ultima. Sono arizotoniche (con accentazione sulla desinenza) la prima e la seconda plurale. Il verbo, per tanto, alterna l'accentazione (rizotonica o arizotonica) a seconda delle persone. Per concludere. L'infinito ha la forma arizotonica perché l'accento non cade sul tema, ma sulla desinenza (calamitàre). Non vediamo o meglio non capiamo, inoltre, il raffronto con i verbi scaraventare e improvvisare.

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Da un quotidiano in rete:


 Insulti e sputi a giocatore del Gambia 
da avversari durante partita Juniores


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Non sarebbe stato meglio se i titolisti avessero seguito le indicazioni del DOP (Dizionario di Ortografia e di Pronunzia)  che  indica il genere maschile per il fiume [il (fiume) Gambia] e il femminile per lo Stato [la (nazione) Gambia]?

Vediamo, anche, da "Sapere.it" (De Agostini):


Il suo territorio corrisponde a una sottile striscia valliva, incuneata nel Senegal, lungo il corso medio e inferiore del fiume Gambia. Colonia creata dagli inglesi in un'area interamente francofona per assicurare uno sbocco marittimo al mercato degli schiavi e ai prodotti dell'interno, la Gambia ha mantenuto i suoi confini artificiali anche con l'indipendenza (1965). Dal 1º febbraio 1982 al 30 settembre 1989 fu unita al Senegal nella Confederazione della Senegambia. Solo motivi di rivalità coloniale ne hanno fatto uno Stato a sé, separato dal Senegal, a cui è accomunato da fattori etnici, sociali ed economici. Nonostante l'esiguità della superficie, il Paese offre luoghi interessanti e sorprendenti, che ne fanno un "gioiello", al pari degli altri Stati della regione. Uno degli aspetti più interessanti è costituito dai suoi abitanti, dalla cultura e dalla piacevole atmosfera che ne caratterizza la vita di tutti i giorni. La Gambia rimane però un Paese arretrato, privo di risorse minerarie qualificate e praticamente senza industrie.


lunedì 30 gennaio 2017

L'aggettivo


Cari amici blogghisti, permettetemi  di presentarmi affinché possiate "usufrire di me" in modo corretto. Sono l'aggettivo, e di nobili natali, discendo, infatti, dal latino medievale “adiectivum” (aggiunto), composto di “ad” (presso) e “iacere” (gettare); propriamente significo “colui che si getta presso”; per questo motivo alcuni miei biografi amano definirmi “quella parte variabile del discorso che si ‘aggiunge’ al nome per indicare una qualità o per dargli una precisa determinazione”.  E sempre per il motivo di essere “gettato” accanto al nome sono stato diviso in due gruppi: ‘qualificativo’, se aggiungo al nome o sostantivo una qualità e ‘determinativo’ se aggiungo al nome un preciso elemento che ne determini, appunto, la posizione o il possesso.

Prima di farvi degli esempi, per meglio chiarire questi concetti, mi preme rammentarvi che, essendo di aristocratiche origini, non mi piace vedermi sempre “appiccicato” al nome; spesso la mia aristocratica presenza non è necessaria, per questo adoro moltissimo ciò che di me ha detto Alphonse Daudet: “L’aggettivo deve essere l’amante del sostantivo e non già la moglie legittima. Tra le parole ci vogliono legami passeggeri e non un matrimonio eterno”. Quando scrivete (o parlate), quindi, non abusate sempre di me.

Tornando “a bomba”, se io dico una casa bella aggiungo alla casa, cioè al sostantivo, una qualità, vale a dire la bellezza; “bella”, per tanto, è un aggettivo qualificativo. Se dico, invece, quella casa, specifico quale casa, cioè la determino; “quella”, quindi, è un aggettivo determinativo. Gli aggettivi determinativi si dividono, a loro volta, in quattro specie: dimostrativi (quella); possessivi (mia); numerali (una) e quantitativi (poco). Come mio cugino l’avverbio che può stare prima o dopo il verbo, anch’io posso essere collocato prima del sostantivo o dopo, non esiste una “legge” in proposito: posposto al sostantivo do maggiore “spicco” alla qualità che si intende mettere in evidenza. È una “donna bella” ha una “sfumatura” diversa, infatti, che non è una “bella donna”. Attenzione ai casi, però, in cui la collocazione dell’aggettivo può creare ambiguità: è una “buona donna” acquista un significato diverso da è una “donna buona”. Non finirò mai, dunque, di raccomandarvi di “piazzarmi” al posto giusto al fine di evitare incresciosi “incidenti di percorso” nelle vostre relazioni sociali.

Per quanto attiene alla concordanza, in linea di massima, devo essere dello stesso genere e dello stesso numero del sostantivo (o dei sostantivi) cui mi riferisco: il libro è bello; i libri sono belli. Quando sono in compagnia di due o piú sostantivi dello stesso genere seguirò, ovviamente, il medesimo genere e sarò plurale: i libri e i quaderni sono belli. Se, però, si tratta di esseri inanimati o di concetti astratti o strettamente affini, di genere singolare, posso restare anch’io singolare.

Mi spiego meglio con alcuni esempi: la franchezza e la generosità romane. Ma anche: la franchezza e la generosità romana. L’aggettivo singolare ‘romana’ si riferisce tanto a franchezza quanto a generosità. Ancora. Un cappello e un abito nero. Ma anche: un cappello e un abito neri. E a proposito di colori, si faccia attenzione all’ “aggettivo” marrone perché non è propriamente tale. So benissimo che i piú lo considerano un aggettivo e lo concordano, quindi, con il sostantivo cui si riferisce cadendo, però, in un madornale errore. Marrone, dunque, non è un aggettivo come ‘giallo’, ‘verde’, ‘rosso’, ‘nero’ ecc., ma un sostantivo che significa “color del castagno, del marrone” e resterà, quindi, invariato: guanti (del color del) marrone; giacca (del color del) marrone; scarpe (del color del) marrone. Nessuno, infatti, si sognerebbe di dire “camicie rose”; “capelli ceneri” ma correttamente: camicie rosa (del color della rosa); capelli cenere (del color della cenere). Perché il mio amico marrone deve essere violentato? Dimenticavo: quanto sopra detto vale anche per il mio collega "arancione": camicie arancione, non "arancioni".

Passo, ora, la “parola” al Pianigiani che vi “illuminerà” sull’origine della locuzione che ho adoperato prima: “Tornare a bomba”. Cordialmente, il vostro amico Aggettivo



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La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": scarabocchio. Ottorino Pianigiani dà, però, un' "origine etimologica" diversa da quella "incerta" riportata nel sito in questione. In proposito "sentiamo" anche il Tommaseo-Bellini.

domenica 29 gennaio 2017

"Nostalgioso"



Un articolo di Salvatore Claudio Sgroi (sito dell'Accademia della Crusca).

venerdì 27 gennaio 2017

"Fare" il bagno o "prendere" il bagno?





Il bagno si fa o si prende?
Il parere della Crusca

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La "lingua" della stampa
forse è la stessa donna

Quanto a taxista, sarebbe meglio "tassista" come fa notare il DOP.

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I lettori che ravvisino strafalcioni orto-sintattico-grammaticali in testi giornalistici possono scrivere ad albatr0s@libero.it. Gli "orrori" saranno pubblicati ed esposti al  “pubblico ludibrio”.











giovedì 26 gennaio 2017

Soldata o soldatessa?


Chi consulta il vocabolario Treccani in rete, a parte il refuso "obbligatoriomente", non sa che pesci prendere circa il femminile corretto di soldato: soldata o soldatessa?

soldato s. m. [part. pass. dell'ant. soldare "arruolare"]. - 1. (stor.) [chi era assoldato nelle milizie mercenarie: i s. di ventura] ≈ mercenario. 2. a. (milit.) [chi appartiene al gradino più basso della gerarchia militare, anche nell'espressione soldato semplice] ≈ (lett.) milite. ‖ soldatessa. ↔ graduato, sottufficiale, ufficiale. b. (solo al sing.) (estens., fam.) [il periodo passato obbligatoriomente sotto le armi: fare il s.] ≈ (fam.) militare, (pop.) naia, servizio militare (o di leva). c. (estens.) [uomo armato, senza distinzione di armi e specialità: essere un buon s.] ≈ militare. ↔ borghese, civile. 3. (fig.) [chi lotta per la difesa di un ideale, di una fede e sim.: un vero s. della libertà] ≈ (lett.) campione, difensore, paladino.

soldato s. m. (f. -a, non com.; -essa, anche scherz. e spreg.) [part. pass. dell’ant. soldare]. –

Riteniamo utile segnalare, in proposito, la nota d'uso di "Sapere.it" (De Agostini):

Il femminile regolare di soldato è soldata, e così si può chiamare una donna che eserciti il mestiere di soldato. È in uso anche soldatessa, che però può avere un tono scherzoso o valore spregiativo, come tradizionalmente hanno avuto in italiano molti nomi femminili in -essa. Alcuni preferiscono poi chiamare anche una donna soldato, al maschile. Si tratta di una scelta che non ha basi linguistiche, ma sociologiche, e che comunque può creare, nel discorso, qualche problema per le concordanze.

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Sul femminile dei nomi che indicano cariche e professioni segnaliamo un magistrale intervento di Sergio Lepri.


Da un quotidiano in rete:

"Sei incinta, quindi niente concorso Gdf"
il Tar dà ragione a una soldatessa siciliana


Da "Professione giornalista", di Sergio Lepri:


·         Non ha senso l’uso di “soldatessa” al posto di “soldata”. Il femminile di “soldato”, che è il participio passato di “(as)soldare”, è “soldata”, come “deputata” è il femminile di “deputato”.




mercoledì 25 gennaio 2017

Io "ìntimo" o "intímo"?


Gentile dott. Raso,
un amico mi ha fatto "scoprire" il suo sito, definirlo prezioso è riduttivo; l'ho messo subito tra i preferiti (è il PRIMO tra i preferiti). Ho "scoperto" anche il suo impareggiabile libro sul buon uso della lingua italiana, che ho subito scaricato dalla rete. Le scrivo per un quesito di natura ortoepica. Giorni fa ho sentito un mio conoscente dire al figlio "ti intìmo (con l'accento sulla seconda "i") di rientrare prima delle 22.00". Sono sobbalzato: la pronuncia del verbo intimare non è sdrucciola, vale a dire non ha l'accento tonico sulla prima "i"?
Grazie se avrò una sua cortese risposta.
Cordiali saluti.
Francesco P.
Ferrara
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Cortese amico, il verbo intimare ha due pronunce, entrambe corrette. Una piana, "all'italiana", con l'accentazione sulla seconda "i" e una sdrucciola, "alla latina", con l'accento tonico sulla prima "i". Veda il DOP (Dizionario di Ortografia e di Pronunzia). Dimenticavo: grazie del suo apprezzamento.

martedì 24 gennaio 2017

La pareristica


La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": concludere.
E quella, non a lemma nei vocabolari dell'uso, segnalata da questo portale:  pareristica. Sostantivo femminile, del gergo giuridico, con il quale si indicano gli studi, le tecniche, i metodi e le procedure per esprimere un determinato parere. È composto con il sostantivo "parere" con l'aggiunta del suffisso "-istica".

lunedì 23 gennaio 2017

Il congiuntivo di "alleviare"


Da  "La posta del Professore" del sito della Zanichelli:

Congiuntivo e forme ambigue dei verbi in -iare

Buongiorno,

ho un dubbio sul congiuntivo presente del verbo alleviare. In metà dei vocabolari alla terza persona plurale compare ‘allevino’. In un’altra metà invece ‘alleviino’ per distinguerlo dal congiuntivo del verbo allevare.

Vorrei sapere se solo una delle due forme è corretta, se la scelta tra l’una e l’altra possibilità è libera, oppure se la scelta di ‘alleviino’ sia consigliata, ma non obbligatoria, quando dalla frase potrebbe sorgere un dubbio se si tratta del verbo alleviare o allevare.

Grazie,

Paolo

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 Gentile Paolo,

ha ragione. Molte coppie di verbi in -iare hanno alcune forme coniugate comuni fra loro. Per esempio, in:

   accoppiare / accoppare

   ammaliare / ammalare

   celiare / celare

   miniare / minare

   variare / varare

e in altri verbi, sono identiche alcune forme dell’indicativo presente e del congiuntivo presente: tu accoppi, che io/tu/egli accoppi, che essi accoppino.

 In genere il contesto consente di risalire al verbo da cui la forma ambigua deriva. Ma è uso ammissibile e abbastanza comune raddoppiare la ‘i’ in tu accoppii, che io/tu/egli accoppii, che essi accoppiino quando si vuole sottolineare la derivazione da accoppiare.

 La modifica è in agenda per lo Zingarelli 2018 la cui uscita è prevista per il prossimo giugno. Per esempio così sarà il verbo alleviare:

alleviare /alle’vjare/

[vc. dotta, lat. tardo alleviāre, comp. di ăd e lĕvis ‘leggero’ av. 1294]

A v. tr. (pres. io allèvio, tu allèvi o allèvii)

 Del resto analogo sdoppiamento è già previsto nello Zingarelli 2017 nel caso di sostantivi in -io che possono essere ambigui: 

presidio /pre’sidjo/

[vc. dotta, lat. praesĭdiu(m), da praesidēre (V. presidente e presiedere) sec. XIV]

s. m. (pl. -i o -ii)

1 complesso di truppe poste a guardia o a difesa di una località, di un’opera

 Con i migliori saluti dal

Professore

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Alla risposta del Professore possiamo aggiungere un distinguo per quanto attiene ai verbi in "-iare". Se la "i" della prima persona del presente indicativo (-io) non è tonica, cioè non accentata, perdono la "i" della radice (o tema) dinanzi alle desinenze che cominciano con "i", a prescindere dai modi e dai tempi. "Noi studiamo" (presente indicativo) e "che noi studiamo" (presente congiuntivo). "Che io studi", quindi, non "studii". Stando a questa "legge linguistica", la prima persona del presente congiuntivo di avviare sarà, invece, "che io avvii" perché la prima persona del presente indicativo ha la "i" tonica (io avvío). Tornando al verbo "alleviare" riteniamo "piú corretta", dunque, la forma senza la doppia "i": che essi allevino (non alleviino).


domenica 22 gennaio 2017

Incuculíto


La parola proposta da questo portale, e non "lemmata" in tutti i vocabolari dell'uso, è: incuculíto. Aggettivo che sta per ostinato, intestardito, caparbio e simili. L'etimo è incerto, probabilmente da "cuculo"  con il prefisso  "in-" e il suffisso  "-ito".
A proposito di cuculo: interessante questo articolo.


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Si faccia attenzione a "fra", troncamento di frate, non richiede l'apostrofo:  fra Gaudenzio, dunque, non  *fra' Gaudenzio. Siamo rimasti sconcertati leggendo la grammatica di Max Bocchiola e Ludovico Gerolin. Scrivono: «Fra' (= frate, diverso da fra preposizione)». È bene ricordare anche che l'apostrofo indica l'elisione, cioè la caduta finale di una vocale e non può esserci elisione davanti a parole che cominciano con una consonante. Il troncamento, invece, è la caduta di una vocale, di una consonante o di una sillaba in fine di parola. È il caso di fra[te].

sabato 21 gennaio 2017

Perché io "esco" e noi "usciamo"?


Cortese dr Raso,

ho appena appreso, leggendo il suo istruttivo libro (che ho scaricato da Internet), perché il verbo udire in alcuni tempi e modi muta la "u" in "o". Nessuna grammatica in mio possesso riporta la sua magistrale spiegazione. I testi consultati si limitano a classificare il verbo suddetto tra gli irregolari. A questo punto mi permetto di chiederle - sperando in un benevolo accoglimento della mia richiesta - il motivo per cui anche il verbo "uscire" cambia la vocale iniziale "u" in "e" in alcuni tempi e modi. La ringrazio anticipatamente e le porgo i miei cordiali saluti.

Simona P.

Lecco


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Gentilissima Simona, perché non dovrei accogliere la sua richiesta? Cercherò di essere il piú chiaro possibile. Il verbo in questione proviene dal latino “exire”, composto con il prefisso “ex” (fuori) e il verbo “ire” (andare), quindi “andare fuori”, e “trasportato” in lingua italiana nella forma “escire”: io esco. Con il trascorrere del tempo il tema “esc” si è mutato in “usc” per influenza del termine “uscio”: uscire. Nel corso della coniugazione, quindi, le forme accentate sulla prima sillaba (èsco, èscono) conservano nel tema la “e” originaria latina, sostituita dalla “u” in tutti gli altri casi. Questo, potremmo dire, per una questione di “suono”. In sintesi, nel verbo “uscire” si ha “usc” quando l’accento tonico cade sulla desinenza (usciàmo); “esc” quando l’accento cade sul tema o radice (èscono). Le forme disusate con la “e” in tutta la coniugazione sono dell’uso popolare toscano: noi esciamo, voi escite ecc. Veda il DOP.


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La parola proposta da questo portale: sacchettare. Verbo denominale (da "sacchetto") transitivo. Non significa "fare, comporre dei sacchi" ma percuotere una persona con sacchi pieni di sabbia al fine di ucciderla. Non è lemma in tutti i vocabolari dell'uso.


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Due parole sull'uso corretto di "arrosto". Questo termine, dunque, derivato del verbo "arrostire" può essere tanto sostantivo (un arrosto di maiale) quanto aggettivo. In funzione aggettivale è tassativamente invariabile. Diremo correttamente, quindi,  patate arrosto; vitello arrosto; pesce arrosto e simili.

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Finalmente!  Firenze, la Crusca bacchetta la Camera: "No home restaurant nella legge,
usare l'italiano"


venerdì 20 gennaio 2017

Ancora sul sessismo linguistico. S.C. Sgroi


IL SESSISMO DELLA LINGUA È UN EQUIVOCO TEORICO

di Salvatore Claudio Sgroi *

Espressioni come (i) "la foto in topless del ministro [recte: della ministra] Giannini" (sul "Messaggero" 20.8.14), (ii) "Il marito dell'assessore [recte: assessora] Lucia de Siervo" o (iii) "il direttore [recte: la direttrice] Anna Bianchi", (iv) "il chirurgo [recte: la chirurga] Lucia Rossi", o ancora (v) "Anna e Paolo sono stanchi [recte: *stanche!]", (vi) "la Boldrini" [recte: Boldrini!], (vii) "la professoressa" [recte: professora!], (viii) "l'origine dell'uomo [recte: dell'uomo e della donna]", ecc. sarebbero -- per i teorici del sessismo della lingua -- tutte inficiate di "sessismo", di privilegiare cioè il maschile (ignorando il femminile) o di discriminare il femminile (rispetto al maschile). Da ciò la riformulazione "corretta", non sessista, sopra indicata con [recte]. I problemi linguistici sopra esemplificati sono l'oggetto del volumetto "Sindaco e sindaca: il linguaggio di genere" di Cecilia Robustelli. Secondo l'assioma di tale teoria, diffusa da Alma Sabatini (1987) e abbracciata dalla Robustelli: "la lingua italiana [...] è basata su un principio androcentrico" (p. 27). Tale teoria è in realtà fondata su una serie di equivoci. La lingua non è invero né contro né pro qualcuno. È l'uso che di essa vien fatto dai parlanti che può essere rivolto contro X o Y. E la lingua può quindi certamente essere adoperata in chiave anti-femminista, per es. se qualcuno dice di una donna che "è un orango" o "una bambola gonfiabile" (p. 9). Ma ritenere che il "genere grammaticale" ("maschile" e "femminile") abbia la funzione di indicare rispettivamente referenti maschi e femmine è del tutto fuorviante. Il "genere grammaticale" garantisce in realtà la coesione morfo-sintattica -- mediante l'accordo, per es. "articolo + (aggettivo) + Nome", ecc. --come in "una (bella) casa/donna" (rispetto a *"un bello casa/donna"). La presunta valenza semantica sessuale del genere grammaticale, conta tra l'altro non poche eccezioni. "La spia" può indicare sia un uomo che una donna; "l'aquila" può essere sia maschio che femmina, ecc. E poi come metterla con i nomi non-animati: "la tavola" e "il tavolo" devono il loro genere a quale componente sessuale? Negli ess. di cui sopra: (i) "il ministro Giannini", (ii) "l'assessore Lucia de Siervo", (iii) "il direttore Anna Bianchi", (iv) "il chirurgo Lucia Rossi", i nomi comuni trasmettono il loro significato istituzionale o professionale e non già quello relativo al "sesso", che è invece veicolato dal nome proprio. Così facendo il parlante decide di sottolineare il suo ruolo e non già l'appartenenza al sesso femmina. Nel caso (viii) de "l'origine dell'uomo", anche qui il maschile "uomo" è comprensivo di "uomini e donne", suscettibile sì di essere esplicitato, se il parlante lo ritiene opportuno. Nell'es. (vi) "la Boldrini" invero la lingua è paritaria, consentendo strutturalmente di distinguere anche omonimie, per es. "la Sabatini (Alma)" vs "(il) Sabatini" (Francesco, lessicografo); altro che "peccato veniale" dire "la Boldrini"! (p. 102). A dir poco "artificioso" (p. 21) risulta invece l'accordo al femminile in (v). E iper-logicistico, se non surreale, il suggerimento in (vii) "la professora". La teoria sessista rischia insomma di essere anche "prescrittivista" promuovendo "regole regolanti". Pericolo da cui il Presidente della Crusca, C. Marazzini, mette peraltro in guardia (pp. 17-18): "vietato vietare" (p. 122). Il sessismo linguistico, imponendo l'uso di forme femminili indicanti (presuntivamente) il sesso, ignora insomma il principio della "onnipotenza semantica", grazie a cui il nativofono può dar sempre forma ai propri pensieri, quali che essi siano.
* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania


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Fuori tema: La musica e la matematica di Piergiorgio Odifreddi

giovedì 19 gennaio 2017

Le nozze morganatiche e il sangue blu


"Unaparolaalgiorno" di martedí scorso, morganatico, a un certo punto tratta anche dell'espressione "sangue blu" . La spiegazione che dà circa l'origine della locuzione differisce da quella che demmo noi  in un nostro vecchio articolo. La riproponiamo.

Se siete di nobile casato, e nelle vostre vene scorre il cosiddetto sangue blu, non confondetevi con il popolo cadendo nell’errore comune – quando scrivete – di accentare il blu: non occorre, basta il vostro nome per indicare il nobile lignaggio. Bando agli scherzi, l’aggettivo blu, come tutti i monosillabi, non necessita di accento.
Prima di addentrarci nei 
meandri linguistici dei monosillabi e nel caso specifico di blu, crediamo sia interessante soffermarci sull’origine della locuzione avere il sangue blu. Tutti conoscono il significato scoperto dell’espressione; pochi, forse, conoscono quello coperto, vale a dire la sua origine.

 Questo modo di dire, dunque, è giunto a noi dalla Spagna del periodo medievale. I nobili spagnoli dell’epoca, in particolare quelli della Catalogna, si vantavano di non essersi mai uniti in matrimonio con gli invasori Mori o con gli Ebrei, per questo motivo le loro vene esteriori apparivano più blu di quelle della popolazione di sangue misto che aveva la carnagione più scura. Con il trascorrere del tempo l’espressione è stata adoperata e si adopera tuttora per indicare l’altezzosità sdegnosa di coloro che si comportano come certi antichi aristocratici.
E veniamo al monosillabo 
blu. C’è da dire, innanzi tutto, che questo aggettivo – per restare in tema – non è di nobili origini patrie, bensì francesi: bleu. L’uso erroneo dell’accento, quindi, potrebbe esser nato dal fatto che tutte le parole di origini francesi devono essere pronunciate con l’accento sull’ultima sillaba.
Non è, però, il caso di blu che, oltre ad essere entrato a pieno titolo nel vocabolario della lingua italiana è, per giunta, un monosillabo e una 
legge grammaticale vieta l’uso dell’accento scritto sui monosillabi, tranne in casi particolari che esporremo per sommi capi cercando di non cadere nella pedanteria.
Segneremo l’accento su alcuni monosillabi che hanno la medesima scrittura ma significato diverso: 
 (verbo) e da (preposizione);  (avverbio) e la (articolo);  (pronome) e se (congiunzione);  (sostantivo, giorno) e di (preposizione).
Segneremo, altresì, l’accento sui monosillabi con dittongo ascendente: 
ciò, già, più, può eccetera. A questo proposito è bene ricordare che si chiama ascendente il dittongo in cui la vocale debole precede quella forte in quanto la sonorità della pronuncia aumenta (ascende) passando sulla seconda vocale: piove. Nel caso contrario avremo un dittongo discendente: reuma.
Tornando al nostro 
blu, dunque, non lo accenteremo salvo che nelle parole composte: gialloblù, rossoblù, biancoblù e via dicendo.


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Si è bravi "in" qualcosa o "a" qualcosa? Il responso della Crusca.

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Incredibile! Da "Virgilio-Sapere.it":




mercoledì 18 gennaio 2017

S.C. Sgroi - Baci "sessisti"


Attenti ai baci per gli auguri si rivelano "sessisti"

di Salvatore Claudio Sgroi*

«Auguri a tutti e baci!» è il saluto (tuttomaiuscolo) di commiato dell'email di un conoscente inviata a me, e contemporaneamente ad altri 8 destinatari tutti maschi, a fine anno. «Baci. N.N.» è invece il saluto (anche questo in maiuscolo) con firma siglata in un'altra e-mail di una collega, che è solita chiudere con questa formula i nostri scambi mailari. Le formule di saluto in italiano sono assai diversificate, non certamente riconducibili a un inventario chiuso. Chiara è la funzione pragmatica di mediazione sociale dei saluti: il non salutarsi tra conoscenti sarebbe infatti considerato una scortesia. Come caratterizzare brevemente i due messaggi, in oggetto, cogliendone caratteristiche comuni e individuandone la loro specificità? Il "momento della giornata" in questo caso è certamente irrilevante (non così nel caso della scelta per es. di "buongiorno" versus "buonasera"). Si tratta poi di un saluto a un tempo "di gruppo" (nel primo caso) e "individuale" (nel secondo). E di "commiato", quanto alla "posizione", non già "di approccio" o "di passaggio". Quanto ai rapporti socio-personali (età, ruolo e sesso), non sembrano rilevanti le differenze di età tra mittente e destinatari (tra i 30 e i 70 anni) nei due testi; né tanto meno il ruolo personale (conoscenti e amici) e sociale (con titolo di istruzione superiore: tutti laureati, e colleghi a vario titolo). Quello che invece sembra costituire - in maniera inaspettata - la specificità dell'e-mail n. 1(del conoscente con pluri-destinatari  tutti maschi) rispetto alla n. 2 (della collega con uni-destinatario maschio) è invece il sesso. Quando ho infatti ricevuto l'e-mail n.1 ho istintivamente e freudianamente pensato che il mio interlocutore fosse Omo (peraltro da accertare!). Il lettore -se maschio- si chieda se lui manderebbe a un amico (maschio) un saluto con "Baci!". Io sinceramente, no, direi: "Un abbraccio", magari "forte, caloroso", ma "Baci" proprio no! Ovvero i "Baci" li manderei mailarmente a una donna, con cui si condividono rapporti d'amore (filiale, maschio o femmina, per la consorte) o anche d'affetto (per un'amica). Volendo saggiare la "oggettività" di tale uso linguistico - i baci di un uomo sono destinati in esclusiva a una donna e "proibiti" a un uomo - ho posto a più colleghi ed amici se ricevevano (da uomini) o inviavano (a uomini) via e-mail "Baci"come saluto di chiusura. La risposta dei sette informanti è stata univoca: tutti (i maschi) ricevono baci (mail-ari) solo da donne e non li inviano a uomini. Uno ha così commentato: «Molto di rado, per fortuna, mi farebbe un effetto abbastanza sgradevole...». E mi ha salutato con: «Quindi auguri senza baci (e ci mancherebbe...)». Un altro:  «Ovviamente non ricevo baci elettronici da uomini, né tanto meno ne invio. Resto fedele ai vecchi ideali!». Un altro collega ancora, a proposito degli "omo-baci", mi ha mailato: «Certo un articolo sulle formule maschili e femminili nei saluti sarebbe interessante!» salutandomi (ironicamente):«Baci! F.». E allora non ho potuto fare a meno di commentare: «Mio caro, il tuo saluto, sinceramente, mi ‘fa senso’. O è da interpretare - freddamente - come segno/indizio di un mutamento...? ciao! s.claudio». Morale della favola. Con la parola "baci" la lingua si rivela, sul versante lessicale, inaspettatamente "sessista", in quanto lascia trasparire il sesso (maschio/femmina) del parlante o almeno le sue pulsioni omo- od etero-sessuali.

* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania


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I linguisti Valeria Della Valle e Giuseppe Patota scrivono nel loro volumetto "Ciliegie o ciliege?" che "insegniamo" (e crediamo si riferiscano anche a tutti i  verbi in "-gnare") si può scrivere con o senza la "i" nel presente indicativo; tassativamente con la "i" nel presente congiuntivo. La cosa ci stupisce, e non poco: la desinenza  "-iamo" (con tanto di "i") è la medesima per entrambi i modi (indicativo e congiuntivo). Non scriviamo, infatti, "noi amiamo" nel presente indicativo e "che noi amiamo" nel presente congiuntivo? Il distinguo che fanno i due linguisti - a nostro modestissimo avviso - è fuorviante e può indurre in errore le persone sprovvedute in fatto di lingua, perché potrebbero scrivere, per esempio, "noi amamo" (presente indicativo) e "che noi amiamo" (presente congiuntivo).



iniquità o inicuità? iniquità iniquo o inicuo? iniquo iniziativa o inizziativa? iniziativa innaffiare o annaffiare? tutt'e due ... insalùbre insapore o insaporo? meglio insapore noi insegnamo o noi insegniamo? tutt'e due al presente indicativo, noi ...




martedì 17 gennaio 2017

Per smentire la teoria della lingua sessista. S.C. Sgroi

Un articolo del prof. Salvatore Claudio Sgroi*

Per la XXI Giornata Mondiale della Gioventù (GMG) a Cracovia (26-31 VII), la LEV ha pubblicato, a cura di Lucio Coco, un mini-libro in 24°, "Parole ai giovani" di Papa Francesco. Il libriccino è costituito da 100 brani tratti per lo più da discorsi e messaggi, ma anche interviste, omelie, risposte. Lemmi di un "Piccolo lessico ad uso delle giovani generazioni", pronti a una agevole e non precostituita lettura. Fra le tante parole rivolte ai Giovani, c'è l'esortazione tutta argentina ("balconear"): "non guardate dal balcone la vita"; "costruite un mondo migliore"; "Osate sognare". Contro la "cultura dello scarto" dei giovani e degli anziani il Papa sprona gli "Adulti" (maschi e femmine) a porre in primo piano il problema del lavoro: "dobbiamo avere cura dei giovani cercando per loro lavoro [...], dando loro valori dell'educazione; e dobbiamo avere cura degli anziani che sono quelli che portano la saggezza della vita". Diversamente "a quel giovane restano solo o le dipendenze o il suicidio, o andare in giro a cercare eserciti di distruzione per creare guerre". Papa Francesco si rivela attento meta-comunicatore sugli usi dei nuovi canali di comunicazione, nei loro risvolti positivi e negativi. "Internet può offrire maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti, e questa è una cosa buona, è un dono di Dio". "Esistono però aspetti problematici: la velocità dell'informazione supera la nostra capacità di riflessione e giudizio e non permette un'espressione di sé misurata e corretta". Le "Parole ai giovani" sono alla fine un bell'esempio per smentire la teoria sessista della lingua, secondo cui il genere grammaticale masch./femm. svolgerebbe la funzione di indicare il sesso maschio/femmina e non già quello puramente morfosintattico dell'accordo per garantire la coesione, comune ai nomi animati e non-animati. Potrebbe infatti sembrare "sessista" l'uso del masch. plurale "i giovani" o singolare "un giovane" per designare maschi e femmine. E analogamente il collettivo "gioventù", "cari amici", "le persone", "la persona umana", "una persona giovane": indicanti tutti esseri di entrambi i sessi. In realtà in tali usi c'è solo la volontà di indicare "chi è nell'età compresa tra la tarda adolescenza e la maturità", senza far riferimento al sesso. E così pure per il plur. "bambini" o il sing. "un bambino abusato" o gli "anziani": tutti di entrambi i sessi. All'occorrenza, in virtù dell'onnipotenza semantica delle lingue, "i giovani" vengono distinti sessualmente, con termine morfologicamente "mobile", come "(cari) ragazzi e ragazze", "un ragazzo e una ragazza", o ambigenere come "un giovane e una giovane", o indipendente come "ogni uomo e ogni donna".

* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania


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Senza parole!





Era un pazzo, magari un maniaco, ma buono e innoquo quanto saggio e vivo. Liliana non riuscì a dire molte cose sensate: – Io credo di... sì, insomma se non me lo chiedevi te lo avrei chiesto io.

  



E questo è il gioco a cui piace giocare Mauro Biglino, tra un «fare finta» di qua e un «fare finta» di là, con un apparente innoquo gioco fondato sulla menzogna, finzione (fare finta... appunto), inconsciamente gli uditori vengono abituati a 





Ad esempio, possiamo prendere un soggetto del tutto innoquo come le vacanze e far co- struire ai bambini interviste che facciano apparire l'intervistato indolente o in errore per aver scelto di visitare un Paese straniero considerato nemico 



è da un lato un che di affatto innoquo; dall'altro lato, però, è stolto il supporre che con ciò si trovi espresso più di quanto il pensiero possa comprendere ed esprimere. Se in tali simboli, come anche in quegli altri, che vengono generati dalla ..