domenica 30 ottobre 2016

Il rancio e il laziale


Due parole sul "rancio", uno dei vocaboli  omografi e omofoni di cui la nostra lingua non difetta. Cominciamo con il dire che questo termine può essere tanto sostantivo quanto aggettivo. Nel secondo caso è l'aferesi di "(a)rancio": color dell'arancia;  sta, quindi, per "arancione". Occorre dire, però, per "obiettività linguistica" che questo aggettivo viene adoperato, per lo piú, in poesia; difficilmente un grande scrittore lo userebbe in una prosa. È anche aggettivo quando viene adoperato nell'accezione di  "rancido": quel formaggio è rancio, vale a dire rancido. Il terzo significato - e in questo caso è un sostantivo - è quello noto a tutti: pasto dei soldati. L'origine non è schiettamente italiana (o latina) - per questo motivo, pur essendo l'accezione "principe" del vocabolo,  lo abbiamo relegato nell'ultimo posto - ma spagnola: rancho (stanzone di persone). I militari non consumano il pasto in comune in uno "stanzone"? E concludiamo con "laziale", altra parola omografa e omofona con distinti significati: abitante del Lazio e tifoso della squadra di calcio (la Lazio). E qui lanciamo una provocazione ai lessicografi. Perché non chiamare il tifoso della squadra di calcio "lazista" e lasciare laziale solo per designare l'abitante della regione? Laziale "ambivalente"  - a nostro modo di vedere - può creare confusione tra l'abitante e il tifoso. Un abitante di Frosinone, per esempio, è un laziale, ma non necessariamente un tifoso della Lazio. A suffragio della nostra tesi - che non riteniamo affatto peregrina -  portiamo una motivazione etimologica. Il suffisso "-ale" di laziale indica un' "appartenenza": che è del Lazio, che appartiene al Lazio. Lazista - per indicare il tifoso della squadra - oltre a non creare equivoci - ci sembra appropriato perché composto con il suffisso "-ista" con il quale si intende "colui che professa o parteggia per qualcosa". Il tifoso della Lazio non "parteggia" per la squadra del cuore?  Ci piacerebbe conoscere il parere dei soliti soloni della lingua...
Si dia un'occhiata anche qui.

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Inerme e inerte


Si presti attenzione a questi due vocaboli, perché spesso si confondono. Hanno significati diversi. Il primo significa "privo di armi", quindi indifeso. Il secondo sta per inattivo, inoperoso e simili.


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Un "test" sulla conoscenza della lingua italiana preparato dall'Accademia della Crusca in collaborazione con il quotidiano la Repubblica. Si clicchi qui.


sabato 29 ottobre 2016

Strafalcioni giornalistici


I lettori che ravvisino strafalcioni orto-sintattico-grammaticali in testi giornalistici possono scrivere a albatr0s@libero.it. Gli "orrori" saranno pubblicati ed esposti al  “pubblico ludibrio”.



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 "Unaparolaalgiorno.it" ha proposto, ieri, una parola barbara: lounge.  Amici, non sarebbe meglio proporre soltanto parole italiane, visto l'imbarbarimento che sta subendo il nostro idioma, "gentil sonante e puro", per usare le parole di Vittorio Alfieri?

venerdì 28 ottobre 2016

Disparità di vedute "linguistico-ortografiche"


Ancora una  disparità di "vedute linguistiche" tra i ritoccatori del vocabolario Gabrielli in rete e lo stesso Aldo Gabrielli. Nel vocabolario si legge che l'avverbio "viepiú" si può scrivere anche con due "p" (vieppiú); l'insigne linguista, invece, nel  "Dizionario linguistico moderno" e nel suo "Il museo degli errori" condanna la scrizione con due "p"  «perché dopo "vie" non è sottintesa una congiunzione "e"  che giustificherebbe il raddoppiamento».  Dal vocabolario:
 viepiù
[vie-più] o vie più, vieppiù
avv.

lett. Sempre più, molto più: vidi Sansone / vie più forte che saggio (Petrarca).

Da "Il museo degli errori":

Volendo fare della locuzione avverbiale di più una parola sola, bisogna scrivere dipiù, con una sola p e non “dippiù”. E questo per la semplice ragione che la preposizione di non vuole in nessun caso il raddoppiamento fonosintattico  E scriveremo anche digià e non “diggià”, anche se è meglio continuare a scrivere di già; scriveremo difatti e non “diffatti” invece del più usato e preferibile di fattididietro e non “diddietro” (ma anche di dietro), dipoi o di poi, ma non “dippoi”, disopra e disotto, o di sopra e di sotto, ma non “dissopra” e “dissotto”.
Un errore simile molti lo commettono con l’avverbio composto viepiù che assai spesso vediamo scritto vieppiù. Questo vie, infatti, antica alterazione di via usata come rafforzativo del comparativo, non richiede mai il raddoppiamento della consonante successiva. Analogamente scriveremmo viepeggio (o vie peggio) e viemeglio (o vie meglio), e non “vieppeggio” e “viemmeglio”: ma qui l’errore è più raro data l'ormai vieta pedanteria di queste due espressioni.

Dobbiamo dire per "onestà linguistica", però, che anche altri vocabolari contraddicono l'illustre glottologo. Personalmente seguiamo la "regola" secondo la quale "vie" non dà luogo a geminazione (raddoppiamento fonosintattico).


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La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it" è: subissare.

giovedì 27 ottobre 2016

Scilaccare


 Segnaliamo un verbo ignorato da quasi tutti i vocabolari che abbiamo consultato; quelli che lo mettono a lemma lo marcano come toscanismo: SCILACCARE. Eppure è “messo in atto” da coloro che praticano la scherma e dai fanciulli che con la riga si colpiscono a vicenda. Il verbo significa, infatti, “colpire con la scilacca”. E anche dare un colpo di frusta e simili. Ma cos’è la scilacca? Diamo la ‘parola’ a Ottorino Pianigiani e al Tommaseo-Bellini.
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Alfine e al fine
Si presti attenzione a questi due termini ché cambiano di significato a seconda della grafia. In scrizione univerbata (una sola parola) è un avverbio e sta per "finalmente", "infine", "alla fine": Giulio, dopo tanta reticenza, alfine (finalmente) ha deciso di dire come stanno le cose. In grafia analitica (due parole) vale "allo scopo di": ti scrivo al fine (allo scopo di) di metterti al corrente della decisione presa.
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Prefiggiamo e prefissiamo: è indifferente?
La "parola" all'Accademia della Crusca.

mercoledì 26 ottobre 2016

Lettera aperta alla redazione del vocabolario Treccani


Gentile Redazione, tempo fa avevamo segnalato un "errore" riscontrato nel vocabolario al lemma "defatigare" dove si legge che "defaticare" (con la "c") è variante poco comune. Non è esatto, anche se altri vocabolari cadono nel vostro stesso... errore. I due verbi hanno significati distinti, non sono sinonimi e lo specificano chiaramente il Sandron, il Devoto-Oli  e il Gabrielli. Defatigare è pari pari il latino "defatigare", composto con  "de" (particella "rafforzativa") e "fatigare", stancare, spossare, affaticare e simili. Defaticare, invece, è composto con la particella "de", che indica "allontanamento" e il sostantivo fatica ("che allontana, che toglie la fatica"). Defatigare, dunque, è un deverbale; defaticare un denominale, con significati completamente diversi. Stupisce il constatare che l'autorevole e prestigioso vocabolario Treccani non faccia distinzioni di sorta tra i due verbi... Con la speranza che questa missiva sia presa nella dovuta considerazione, porgiamo i nostri piú rispettosi ossequi. F.R.

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Da un quotidiano in rete:


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A nostro modo di vedere la preposizione "di" andrebbe cambiata in "da".
Bruxelles non è una persona. [Arrivata la lettera (inviata) da Bruxelles].






martedì 25 ottobre 2016

Quel poetico divano


 Avreste mai immaginato, gentili amici, che il divano sul quale ci "buttiamo" la sera, tornando a casa stanchi dal lavoro, ha una strettissima relazione con la poesia, quella orientale in particolare? No? Vediamo. Il termine divano ci è giunto, infatti, dal turco “diwàn”, di origine persiana. Ma cosa c’entra la poesia? Andiamo con ordine. Il “diwàn” nell’antico impero ottomano stava a indicare il "consiglio dei ministri"; in seguito, per estensione, si chiamò cosí anche il libro o registro dove venivano trascritte le loro importanti decisioni. Con il trascorrere del tempo, e come accade sempre per le questioni di lingua, si pensò di chiamare – sempre per estensione – “diwàn” anche la sedia sulla quale sedevano i ministri durante le loro riunioni. Giunti a questo punto, poiché il “diwàn” indicava (come abbiamo visto) un libro di una certa importanza – racchiudeva, appunto, le decisioni dei ministri – si decise di chiamare  “diwàn” il libro nel quale erano raccolte tutte le poesie, in ordine alfabetico o cronologico, di un importante poeta (o scrittore) orientale. Il sinonimo “sofà”, invece, è giunto a noi dal francese  “sofa” e questo dall’arabo  “suffa” (cuscino). 

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La parola che portiamo all'attenzione dei lettori è: eutràpelo. Sostantivo maschile. Cosí si chiama la persona che si diverte con moderazione. È tratto dal sostantivo  eutrapelía  per il quale diamo la "parola" al Treccani.

domenica 23 ottobre 2016

Niente paura: c'è il ladro!


Se apriamo un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana alla voce o lemma “ladro”, leggiamo: chi ruba o compie furti. Bene. Analizzando però la parola, ricercandone l’etimologia, vale a dire l’origine, scopriamo una cosa a dir poco… sorprendente: il vocabolo su menzionato, quando è “nato”, non aveva affatto l’accezione attuale. Analizzare una parola significa ripercorrere la strada che il vocabolo ha fatto, fin dal suo nascere, per giungere a noi. Ripercorriamola, dunque. Ladro viene, manco a dirlo, dal latino “latro, latronis”, derivato, a sua volta, sempre dal latino “latus, lateris” che significa ‘fianco’, ‘lato’ e in origine indicava una persona che camminava ‘a lato’, ‘a fianco’ di un personaggio di un certo rango al fine di proteggerlo da eventuali aggressioni di malintenzionati; oggi diremmo che il ‘ladro’ era la guardia del corpo di personaggi in vista. Il contrario, quindi, dell’attuale accezione. Con il trascorrere dei secoli – come si sa – molte parole hanno mutato il loro significato originario e il latino “latro”, infatti, si è trasformato in ‘ladro’ acquisendo l’accezione odierna di… ladro.
Dal ladro passiamo all' "antenna", parola attualissima considerata la presenza massiccia delle antenne televisive che fanno bella mostra di sé sui tetti delle nostre case. Qui – a nostro avviso – il discorso si fa più interessante perché ci sono due scuole di pensiero circa l’origine della parola. Alcuni studiosi di etimologia (la scienza che studia la “nascita” delle parole) fanno derivare il termine dal nome dell’antica città della Sabina, Antenne, così chiamata dal latino “ante amnem”, ‘davanti al fiume’. Da questa città veniva, infatti, il legname adoperato per la costruzione delle antenne delle navi. Altri, invece – e noi, modestamente, concordiamo – connettono il termine con il verbo “tendere”: l’antenna si “tende” verso l’alto a captare le onde sonore o le immagini. Per questa spiegazione non occorrerebbe neanche scomodare l’etimologia. Non è facile, invece, spiegarci la presenza del prefisso “ante” che, certamente, è la preposizione latina “ante” (davanti). Davanti a cosa? Onestamente non siamo in grado di dare una risposta. È certo, invece, che i naturalisti chiamano “antenne” quelle protuberanze di cui sono dotati moltissimi insetti e che si “tendono” a captare i suoni e gli odori.

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La parola proposta da questo portale è: manzuola. Sostantivo femminile che vale "dispetto", "offesa" e simili.

sabato 22 ottobre 2016

Possedere il sigillo diplomatico

Chi possiede questo sigillo? La persona che si trova in situazioni di privilegio e non è obbligata a dare spiegazioni circa il suo comportamento. L'espressione è adoperata in senso figurato e,  per lo più, con intenti ironici o scherzosi. Il sigillo diplomatico è un timbro in dotazione ai diplomatici, appunto, con il quale si attesta l'autenticità e l'ufficialità di documenti atti a garantire particolari trattamenti e privilegi. Ne sono depositari, ovviamente, il ministro per gli affari esteri e le varie rappresentanze diplomatiche.

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Due parole su un verbo che - a nostro modo di vedere - viene molto spesso adoperato se non in modo errato, impropriamente: "guadagnare". Il significato del verbo è - come si può leggere in un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana - "ottenere o ricevere come utile o profitto da un lavoro, da una prestazione o da uno scambio commerciale". Il verbo, insomma, implica una 'fatica' fisica o morale. È adoperato correttamente, quindi, in frasi tipo "guadagnare 250 euro il mese; "è riuscito a guadagnarsi la simpatia di tutti gli astanti"; oppure, "guadagnare terreno", vale a dire conquistarlo avanzando con fatica; "guadagnare tempo", ottenerlo, cioè, con qualche artificio. Come si può vedere, dunque, negli esempi sopra citati c'è sempre l'idea del lavoro, della fatica. Non è corretto usarlo in frasi - come si legge spesso sulla stampa - "ha guadagnato 300 mila euro nel gioco delle scommesse". Dov'è la "fatica"? In questo caso e in altri simili il verbo appropriato è 'vincere'. Insomma - non vogliamo essere ripetitivi - in frasi in cui non è sottintesa l'idea della fatica, l'uso del verbo guadagnare è errato o, per lo meno, improprio. Non si dirà, quindi, "guadagnare l'uscita"; "guadagnare in fretta la fuga"; "la nave ha guadagnato il porto in nottata" e frasi simili. In buona lingua ci sono verbi propri che fanno alla bisogna: raggiungere, arrivare, entrare, giungere e simili.

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La parola che segnaliamo all'attenzione dei lettori è: topotesía. Sostantivo femminile composto con le voci greche "tòpos" (luogo) e "titemi" (collocare, mettere): descrizione di un luogo immaginario.

venerdì 21 ottobre 2016

Essere una pecora segnata...


 ... vale a dire il bersaglio di tutti, la persona cui vengono imputate tutte le mancanze, anche se commesse da altri. Essere, insomma, una vittima predestinata, indipendentemente dal proprio comportamento. Il modo di dire - che ha sempre una valenza negativa - è particolarmente adoperato nel gergo della malavita con il significato di “sorvegliato”, “schedato” dalle forze dell’ordine. L’origine dell’espressione è quanto mai chiarissima: un tempo  le pecore venivano “marchiate” (segnate) per identificarne l’appartenenza a un gregge e, quindi, a un proprietario. Oggi si preferisce tingerne un ciuffo di lana con un colore indelebile. Di  qui, per l’appunto, l’uso figurato.
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Gentile dott. Raso, 
 sto leggendo il suo libro "Un tesoro di lingua" che ho scaricato dalla rete: superlativo! Sto imparando molte cose che credevo di sapere... Vi ho riscontrato, però, un piccolo "neo" (per ora, per lo meno) nella sezione del lessico (defatigante e defaticante): lei scrive che i verbi "defatigare" e "defaticare" hanno significati distinti. Il primo sta per "stancare", il secondo per "togliere la stanchezza, la fatica". Incuriosito, perché nelle cronache sportive ho sempre letto defatigare e mai defaticare nell'accezione da lei segnalata, ho consultato il vocabolario Treccani in rete e, con mia sorpresa, ho letto che "defaticare" è variante non comune di defatigare. I due verbi, insomma, sarebbero sinonimi. Data l'autorevolezza del Treccani...  Come si "discolpa"?
Con viva cordialità.
Tiberio G.
Lecce
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Caro amico, non devo discolparmi di nulla. Come ho scritto nel libro i due verbi hanno origini diverse e, quindi, significati diversi. Il fatto che il Treccani "dissenta" non vuol dire nulla. Defaticare, comunque, non è a lemma in tutti i vocabolari (alcuni cadono nello stesso "errore" del Treccani). Lo registrano, con l'accezione da me riportata, il Sandron, il Devoto-Oli e il Gabrielli (clicchi su defatigare e defaticare). 
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Ai tempi, ormai lontani, della scuola ci hanno insegnato (e, forse, insegnano ancora) una grande baggianata: l’aggettivo gratuito si deve pronunciare “perentoriamente” con l’accento sulla “ú” (gratúito). No, amici, questo aggettivo ha due pronunce: gratúito e gratuíto. La piú comune, però, è la prima: gratúito. Non lo sostiene l’estensore di queste noterelle, lo sostengono i sacri testi.
Sabatini Coletti: gratuito [gra-tùi-to, meno freq. …-tu-ì-…] agg.
Gabrielli: gratuito  [gra-tù-i-to] raro, poet. [gra-tu-ì-to]
Dop (Dizionario di Ortografia e di Pronunzia):

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Due parole due sull’uso corretto di qualunque perché non sempre è adoperato... correttamente. Qualunque, dunque, è un aggettivo indefinito di quantità  e significa l’uno o l’altro che sia. È invariabile e non si può adoperare in funzione di pronome (il pronome corrispondente è chiunque). Essendo invariabile non ha plurale;  non è “ortodosso”, quindi, scrivere o dire, per esempio: non mi convincerete mai, qualunque siano le vostre motivazioni. Un verbo di numero plurale (siano) non può riferirsi a un singolare (qualunque). In casi del genere si sostituisca qualunque con quali che (siano le motivazioni). Alcuni vocabolari ammettono, sia pure raramente, l’uso al plurale, in questo caso, però, sempre posposto al sostantivo. Un’ultima annotazione. Qualunque si può adoperare anche in funzione di aggettivo relativo unendo due proposizioni e il verbo che segue va al congiuntivo (popolare l’uso dell’indicativo). In quest’ultimo caso è grave errore farlo seguire dal pronome “che” (essendo insito in qualunque). Non, quindi: voglio sapere qualunque cosa che voi facciate, ma, correttamente, “qualunque cosa facciate”.

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Cortese sig.  Raso,
qualche giorno fa, rassettando la cantina, ho trovato dentro uno scatolone un vecchio libro, forse di mio nonno, incuriosito l’ho sfogliato e sono stato colpito da un passaggio in cui l’autore scriveva: “Io bollisco sempre l’acqua prima di berla”. È corretto quel “bollisco”? Forse il verbo, “anticamente”, si coniugava come “finire”?
Grazie e cordiali saluti
Giovanni S.
Orvieto
PS.: meraviglioso il suo libro.
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Gentile Giovanni, sí, il verbo bollire nei tempi andati accettava le diverse forme in -isc- o senza (fa parte della schiera dei verbi cosí detti sovrabbondanti, con più forme per una stessa funzione), anzi la forma incoativa era preferibile per non confondersi con alcune voci del verbo "bollare"; ma adesso le moderne grammatiche consigliano solo l'alternativa senza l’infisso  "-isc-". Va tenuta presente, poi, la distanza tra le grammatiche e l'uso. Certo, oggi, nessuno direbbe piú che l’acqua “bollisce”, però...

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Lettera aperta all'Accademia della Crusca, che scrive:

Segnaliamo in questa pagina i volumi ricevuti in omaggio dagli editori di opere di interesse linguistico che hanno aderito alla nostra iniziativa, promossa nel 2003, volta a sensibilizzare gli editori stessi verso la fruizione pubblica delle opere.


Non sarebbe meglio sostituire quel "che" (che hanno aderito) con "i quali"? Di primo acchito sembra che siano le opere che hanno aderito all'iniziativa. E a proposito di "aderire" , non sarebbe meglio sostituirlo con il verbo "accogliere" (o "accettare")?: i quali hanno accolto la nostra iniziativa. Aderire non significa "attaccare" e simili? Sí, aderire qui è adoperato con uso figurato, però...

giovedì 20 ottobre 2016

Zazzeare


La parola che proponiamo, ripresa dal Tommaseo-Bellini, è: zazzeare. Verbo che vale "girare qua e là senza una meta", "andare a zonzo".



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L'italiano piace in tutto il mondo
E' la quarta lingua più studiata


(Repubblica.it)


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I lettori che ravvisino strafalcioni orto-sintattico-grammaticali in testi giornalistici possono scrivere a albatr0s@libero.it. Gli "orrori" saranno pubblicati ed esposti al  “pubblico ludibrio”.

mercoledì 19 ottobre 2016

Non sconcacare...



Salve sig. Raso,
la seguo sempre con molto interesse. Le scrivo per una curiosità. Giorni fa mi è tornata alla mente un'espressione che, spesso, adoperava mio nonno: "Non sconcacare le persone". Non ho mai saputo il significato esatto, i vocabolari non mi sono (stati) di aiuto. Sa dirmi qualcosa in proposito? Grazie se avrò una risposta. Cordialmente.
Ivano P.
Frascati (Roma)
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Gentile Ivano, il verbo, un po' volgare, non è attestato, infatti, nei vocabolari dell'uso (che mi risulti), lo registra il Tommaseo-Bellini. Significa, adoperato in senso figurato, "insultare", "vituperare" e simili.
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Risolvere o soluzionare?
Il parere del linguista Giuseppe Patota.
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I lettori che ravvisino strafalcioni orto-sintattico-grammaticali in testi giornalistici possono scrivere a albatr0s@libero.it. Gli "orrori" saranno pubblicati ed esposti al  “pubblico ludibrio”.


martedì 18 ottobre 2016

Quattrennio? Perché no!


Cortese dr Raso,
approfittando della sua nota cortesia (e disponibilità) mi permetto sottoporle un quesito: è possibile adoperare il termine “quattrennio” per indicare un periodo di quattro anni? Ho consultato molti vocabolari ma, ahimè, con esito negativo. Ho scaricato dalla rete il suo prezioso e insostituibile libro "Un tesoro di lingua". Sono rimasto affascinato dal linguaggio chiaro (e, quindi, comprensibilissimo) con cui tratta argomenti "ostici".
In attesa di una sua autorevole risposta, la saluto cordialmente.
Emanuele S.
Mestre
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Gentilissimo Emanuele, “quadriennio” è il termine corretto e atto a indicare un periodo di quattro anni; non mi sentirei di condannare, tuttavia, il suo “quattrennio” (anche se non attestato nei vocabolari) perché correttamente formato con ‘quattro’ e il suffisso ‘-ennio’. "Quattrennio", comunque, anche se ignorato dai vocabolari dell'uso è "immortalato" in alcune pubblicazioni.


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La parola che proponiamo e che non tutti i vocabolari riportano è: disandevole. Aggettivo che sta per "impervio", "malagevole" e simili.

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I lettori che ravvisino strafalcioni orto-sintattico-grammaticali in testi giornalistici possono scrivere a albatr0s@libero.it. Gli "orrori" saranno pubblicati ed esposti al  “pubblico ludibrio”.

lunedì 17 ottobre 2016

Le "file" e le "fila"


Riproponiamo un nostro vecchissimo articolo perché abbiamo notato che alcune cosí dette grandi firme della carta stampata e no (ma non solo) continuano a non "capire" la differenza che intercorre tra le file e le fila.
Chi di voi, gentili “navigatori”, non ha mai fatto una fila davanti a uno sportello bancario o a quello di un ufficio postale? Seguivate le file o le fila? In altre parole, cortesi amici e amatori della lingua, bisogna dire “file” o “fila”? Perché questi due plurali confondono le idee e fanno cadere in errori marchiani un po’ tutti?
Non c’è discorso in cui l’illustre oratore non inciampi nelle “fila del partito” o non inviti i suoi sostenitori a “stringere le fila” dove questo “fila” è errato. La nostra lingua, si sa, è piena di regole e sottoregole, di eccezioni e controeccezioni, ma forse è troppo ignorata anche da chi, per mestiere, non dovrebbe farlo: la stampa. Tempo fa, su un grande giornale d’informazione, abbiamo letto un “serrare le fila” che ci ha fatto strabuzzare gli occhi. Vediamo, quindi, di fare un po’ di chiarezza.
In italiano esiste un sostantivo femminile singolare “la fila”, cioè una “serie di persone o cose più o meno allineate una dietro l’altra” (la fila all’ufficio postale, per esempio), che ha un plurale “le file”. Diremo, perciò, che davanti a quel negozio – in occasione dei saldi – si sono formate lunghissime file (non “fila”) di persone, e che i militari rompono “le file”, rompono, cioè, il loro allineamento. Vi è, poi, un altro sostantivo di genere maschile, “il filo”, esattamente il prodotto di una filatura (un filo di lana, di cotone, ecc.) con due plurali, uno regolare maschile e uno irregolare femminile: i fili e le fila. Il plurale più comune e, per tanto, più adoperato è quello regolare: i banditi hanno tagliato i fili del telefono; alla signora hanno rubato quattro fili di perle; si sono sfilati tutti i fili delle calze. L’altro, quello irregolare (il femminile “le fila”), si adopera, generalmente, in senso collettivo per indicare più fili presi assieme: le fila del formaggio. Ma più spesso in senso figurato o traslato: le fila della congiura. Attenzione, quindi, amici, abbiamo “le file” del partito, dell’esercito, di un’associazione ecc., non “le fila”.

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Voltastomaco: si pluralizza?
A nostro modo di vedere si pluralizza normalmente essendo un nome composto di una voce verbale (voltare) e di un sostantivo maschile singolare (stomaco), e i sostantivi cosí formati prendono la normale desinenza del plurale. Vediamo il "pensiero" di qualche vocabolario. Treccani: invariabile; Palazzi, De Mauro e DOP non specificano (quindi variabile); Gabrielli, Devoto-Oli, Sabatini-Coletti, Sandron, Zingarelli: variabile. "Pilateggiano" (invariato o plurale) Sapere.it (De Agostini) e Garzanti. Un'ultima annotazione: il plurale di stomaco può essere sia stomaci sia stomachi. I voltastomaci e i voltastomachi, quindi.

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domenica 16 ottobre 2016

Perché pregevole e non pregievole?


Da "Domande e risposte" del sito "Treccani":
Vorrei sapere perché pregevole si scrive senza i visto che deriva da pregiare. Grazie
L'aggettivo pregevole non deriva dal verbo pregiare, ma dal sostantivo pregio. Ciò detto, non muta la sostanza della questione.
 Siamo in presenza di due grafie, che rendono conto del suono palatale della lettera g seguìta dalla vocale e: nel suffisso -evole (dal latino -ibilem), preceduto dalla lettera g, anticamente era diffusa la grafia gie (per es., in agievole), mentre da tempo nell'italiano contemporaneo si è affermata la grafia ge.
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 Ancora una "zappata" sui piedi degli esperti della redazione del vocabolario (come nel caso di "inconscie"; nostro intervento del 13 scorso). Gli esperti di "Domande e risposte" rispondono, giustamente, che l'aggettivo "pregevole" non deriva dal verbo ma dal sostantivo "pregio". Sono "sbugiardati", però, dallo stesso vocabolario: pregévole agg. [der. di pregiare]. – Che ha pregio, valore, qualità; meritevole di stima, degno di considerazione, di apprezzamento: una p. raccolta di quadri; libri, scritti p.; un lavoro d’oreficeria di pregevolissima fattura; una p. rappresentazione teatrale; una persona p. da ogni punto di vista. Avv. pregevolménte, in modo pregevole: un affresco pregevolmente restaurato; un avorio lavorato pregevolmente. In questo caso ha "toppato" il vocabolario. Non sarebbe bene che gli esperti, prima di rispondere, "consultassero" il loro vocabolario per dare una risposta univoca e, se del caso (come in questo), emendare il dizionario? Quanto alla risposta sarebbe stata "piú completa" se avessero specificato che in "pregevole" la "i" cade perché non è piú necessaria per mantenere il suono palatale alla "g" in quanto quest'ultima è seguita dalla vocale "e".

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I responsabili del vocabolario, dopo la nostra segnalazione, hanno provveduto alla correzione.

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Un lettore, imbattutosi (per caso?) in questo sito, ha chiesto lumi ai linguisti del quotidiano in rete la Repubblica circa la correttezza di un nostro periodo:

Vittorio P. scrive:


Buongiorno.
In un blog linguistico ho letto la seguente frase:
Non sapevamo che i capi delle facoltà universitarie si chiamano presidenti.
A vostro giudizio è corretto l'uso dell'indicativo presente (si chiamano) in luogo del congiuntivo imperfetto (si chiamassero)?
Grazie per l'eventuale risposta.
Vittorio P.



linguista_1 scrive:


La presenza dell'imperfetto (sapevamo) nella reggente implica, secondo le regole della consecutio temporum, l'uso del congiuntivo imperfetto (si chiamassero).


Alessandro Aresti

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Dissentiamo dal linguista. Nel periodo "incriminato" l'uso del congiuntivo non è tassativo. Si veda Grande Grammatica Italiana di Consultazione, vol. II, XII.3.1.1., esempio (19 b.): "Carlo non sapeva che Gino cantava / canta bene".


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Il linguista ha modificato la risposta cosí:
La presenza dell'imperfetto (sapevamo) nella reggente implica, secondo le regole della consecutio temporum, l'uso del congiuntivo imperfetto (si chiamassero). Tuttavia il presente è impiegato abbastanza spesso e in altri contesti (non nel nostro) è utile in una prospettiva funzionale, per distinguere fra uno stato attuale (non sapevo che si chiamano - ancora è così) e uno stato passato (non sapevo che si chiamassero - prima, ora non più). Ma la soluzione con il congiuntivo resta preferibile per una questione di eleganza di espressione.
Alessandro Aresti

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I lettori che ravvisino strafalcioni orto-sintattico-grammaticali in testi giornalistici possono scrivere a albatr0s@libero.it. Gli "orrori" saranno pubblicati ed esposti al  "pubblico ludibrio".