mercoledì 29 giugno 2016

Si collabora "a" o "con"?

Si collabora "a" o "con"? Dipende. Ci spiega tutto Vittorio Coletti (Crusca).

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Questuoso? Perché no?! È un aggettivo che significa redditizio, termine aulico provenendo dal latino "quaestus", guadagno, lucro, profitto e simili.
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La lingua "biforcuta"
Da un autorevole quotidiano in rete:
Uno dei bandi serviva per 15 capitreni sulla Roma-Viterbo. Decine di persone coinvolte, il dg . "Verifiche in corso"
È il caso di "ricordare" ai redattori titolisti del giornale che il plurale di capotreno è "capotreni" o "capitreno" (meglio il secondo, a nostro avviso, perché capo sta per "comandante") come si può vedere consultando il DOP.

martedì 28 giugno 2016

Motoscàfo e... piròscafo

Cortesissimo dr Raso,
eccomi ancora a importunarla. Vorrei sapere perché i sostantivi piroscafo e motoscafo, pur avendo la medesima terminazione (scafo) hanno una diversa accentazione: il primo sdrucciola, si pronuncia, cioè, con l'accento sulla prima "o"; il secondo, piana, con l'accento sulla "a".
Grazie, come sempre, della sua non comune disponibilità.
Luigi S.
Carbonia
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Gentile Luigi, do la "parola" a Aldo Gabrielli. L'illustre linguista sarà molto piú chiaro e autorevole dell'estensore di queste modeste noterelle.

«(...) La risposta è abbastanza semplice. La parola piròscafo è di origine dòtta, nata nel linguaggio scientifico all’incirca due secoli fa, composta di un prefisso piro-, derivato dal greco pyr, pyrós, fuoco, e di skáphos, pur esso greco, che significa battello: dunque, “battello che va col fuoco”, cioè col vapore generato dal fuoco. Piròscafo ha perciò seguito l’accentazione sdrucciola comune a molti termini di una famiglia di parole composte col prefisso piro-, di formazione antica o anche recente, come piròfila (la pentola “amica” del fuoco), piròmane (il maniaco del fuoco) e altri. Diversa è invece l’origine di motoscàfo, nome che risale al primo ventennio del Novecento, ed è tutto italiano, assolutamente privo di ascendenze classiche. Esso è infatti composto di un primo elemento moto-, abbreviazione di motore, e dell’italiano scafo nel significato generico di imbarcazione; cioè “imbarcazione a motore”. Motoscafo fa quindi parte di un’altra famiglia numerosissima e sempre proliferante di parole, tutte costruite con questo prefisso moto-, e tutte con accentazione piana: motobarca, motonave, motocarro, motociclo, motopompa eccetera. Sul modello di motoscàfo si sono anzi create altre parole ugualmente piane: come batiscàfo, composto col prefisso greco bàthos, profondità, cioè “scafo per esplorazioni profonde”, e aliscàfo, cioè “scafo con le ali”».


Veda anche qui.

 
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La parola proposta è l'aggettivo illatabile. Voce di origine dotta provenendo dal latino "illatabilis", privo di larghezza, che non si può dilatare.

lunedì 27 giugno 2016

«Zeugmate»...

Riproponiamo un nostro vecchio articolo su uno strafalcione cui cadono buona parte dei cosí detti opinionisti e sedicenti scrittori. Lo riproponiamo perché abbiamo letto su un giornale "che fa opinione" che quel signore guardava e mangiava la televisione.

 
Non vorremmo peccare di presunzione se diciamo che nessuno dei nostri "venticinque lettori" ha mai sentito parlare dello "zeugma", anche se molto spesso, nel parlare o nello scrivere lo ‘mette in pratica’. Perché? Perché – come sosteniamo – molti sacri testi grammaticali snobbano questa figura retorica. Lo zeugma è, infatti, una figura retorica che riunisce in dipendenza di un solo verbo piú termini dei quali alcuni richiederebbero un verbo proprio. Prende il nome dalla voce greca "zèugos" (giógo) e significa "aggiogamento", "legame" e in alcuni casi è un vero e proprio errore di grammatica. Dante, il grande Dante, "cade" volutamente in questo errore quando riunisce alla dipendenza di un unico verbo due termini, ognuno dei quali vorrebbe altra dipendenza, là dove dice: «parlare e lagrimar vedrai insieme» (Inferno, XXXIII 9). Ora, secondo la logica grammaticale, avrebbe dovuto dire, anzi scrivere: "vedrai lagrimare e udrai parlare". Le lacrime, infatti, "si vedono" e il parlare "si ode". Ma il Divino – come si sa – lo ha fatto per snellire la frase, e in lui lo zeugma non è un errore ma una forma di eleganza stilistica. E a proposito di zeugma, ma forse è meglio dire di strafalcioni, ricordate – se volete parlare e scrivere correttamente – di non dare mai il medesimo complemento a due verbi diversi, ognuno dei quali deve reggere un complemento distinto. Non dite o scrivete, per esempio, «obbedite e rispettate i vostri genitori». Obbedire, solitamente, è un verbo adoperato intransitivamente, non può reggere, quindi, il complemento oggetto come lo ha, invece, il verbo rispettare. Non "zeugmate", la sola forma corretta è: obbedite ‘ai’ vostri genitori e rispettateli. Il primo verbo, infatti, richiede il complemento di termine, il secondo il complemento oggetto. Non rispettando questa "legge grammaticale" si cade in un errore che potremmo definire "zeugma alla rovescia". Cosí pure è errato dire, anche se si sente spesso, «era simpatico e ricercato da tutti». Si dirà, ‘piú’ correttamente, «era simpatico a tutti e perciò ricercato». Un altro errore frequentissimo, e che si riscontra nei massinforma (giornali e radiotelevisioni), è quello di dare alla medesima parola (verbo) due complementi formati in modo diverso come, per esempio, «all’imputato piaceva vedere la televisione e di leggere». Sentite, oltre tutto, la stonatura? L’unica forma corretta ed elegante è: «all’imputato piaceva la televisione e la lettura». Attenzione, però, e non ci stancheremo mai di ripeterlo: in grammatica non esistono regole assolute. Molte volte ciò che è un errore, se commesso per mera ignoranza, può, al contrario, essere una forma di eleganza stilistica quando sia fatto ad arte da uno scrittore per ricavarne un certo effetto. Resta da stabilire una sola cosa: quali sono gli scrittori che si possono permettere di "far testo"? Quelli che un tempo dal salotto di Maurizio Costanzo pubblicizzavano il loro primo (e spesso unico) libro tra un consiglio per gli acquisti e l’altro, cioè tra una lavatrice e un dentifricio?
 
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Ancora una parola, un verbo per la precisione, relegata nella soffitta della lingua: lingere. Sarebbe bene, invece, rimettere a lemma nei vocabolari questo verbo aulico essendo pari pari il latino "lingere" che vale accarezzare, lambire, sfiorare con la lingua.

domenica 26 giugno 2016

Una scena "strazievole"

No, cortesi amici, non sobbalzate sulla sedia e non prendete un cardiotonico: ciò che avete appena letto è perfettamente in regola con le... regole della lingua. L'aggettivo strazievole, anche se di uso non comune, ha la medesima "dignità linguistica" di straziante. Vogliamo metterlo bene in evidenza per rincuorare, ancora una volta, un nostro carissimo amico che tempo fa, di primo mattino, ci telefonò perché suo figlio (scuola media superiore) era stato messo alla gogna dalla sua insegnante di lettere perché nel tema aveva scritto di "avere assistito a una scena strazievole". Dubitiamo, però, che il ragazzo abbia scritto strazievole consciamente. Non dubitiamo, invece, della pochezza linguistica della docente, che avrebbe potuto consultare un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana, prima di "sputare" sentenze errate (si veda qui). Strazievole, dunque, è un aggettivo correttissimo come tutti quelli composti con il suffisso "-evole" (gradevole, festevole, colpevole, amichevole ecc.). Questo suffisso si usa, infatti, per la formazione di aggettivi derivati da verbi o da sostantivi. A questo punto faremmo un distinguo - prettamente personale - circa l'uso dei due aggettivi. Adopereremo straziante nel significato proprio del verbo da cui deriva (che provoca dolore fisico o morale):assisteremo a una scena straziante (che ci procurerà dolore); strazievole, invece, quando il dolore è già stato "procurato": abbiamo assistito a una scena strazievole.

PS:. Stupisce il constatare che il Treccani in rete non attesti l'aggettivo in questione.

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La parola che proponiamo, non desueta e non attestata nei vocabolari dell'uso, è: festeria. Sostantivo femminile tratto da "festa" e vale "lusso", "pompa magna" e simili.

sabato 25 giugno 2016

La gelosia e la Persia

Sí, sembrerebbe proprio di sí: la gelosia è nata in Persia o, per lo meno, nei Paesi dell’Oriente. Non stiamo parlando della gelosia in senso proprio, ossia di quello stato d’animo caratteristico delle persone che, a torto o a ragione, dubitano della fedeltà e dell’amore dell’amato o dell’amata. Stiamo parlando di quel marchingegno di legno (o di ferro), composto di stecche intelaiate trasversalmente e inclinate, che si mette nelle finestre per lasciare passare l’aria e la luce (e non esser visti da occhi indiscreti); in altre parole stiamo parlando delle persiane, oggi sostituite dalle serrande. Le persiane, chiamate anche gelosie, hanno, però, una stretta relazione con la... gelosia, donde il nome, appunto. Questi serramenti, dunque, che consentono a chi è dentro di guardare fuori senza esser... visto, sono stati inventati proprio per motivi di gelosia: per ‘proteggere’ le donne che stanno in casa dagli sguardi degli uomini. Le gelosie orientali (i prototipi, potremmo dire) erano fisse (non si potevano aprire, quindi) e molto spesso erano di pietra e chiudevano ogni apertura della casa. Le persiane arrivate a noi dal lontano Oriente sono state impiegate per motivi diversi dalla gelosia, oseremmo dire per motivi piú “civili”, anche se ne ricordano il nome.

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La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": epidittico.

venerdì 24 giugno 2016

Dare una stangata (o essere stangato)

Il ragionier Piombini era fuori di sé: aveva appena appreso che il suo collega di stanza sarebbe stato promosso al grado superiore; mentre lui, piú anziano, era fermo al settimo livello. Era invidioso, quindi, e trascorreva le giornate pensando a come poter 'stangare' il suo "amico", vale a dire a quale ostacolo frapporre per impedirgli l'avanzamento di carriera. Un giorno fu sorpreso dal figlio mentre ad alta voce diceva fra sé e sé: "devo dargli una stangata, devo dargli una stangata". Il figlio corse nel ripostiglio, prese una stanga di legno e, con aria trionfante, la porse al padre: "Ecco la stanga, papà, puoi toglierti la soddisfazione". Ci volle tutta la pazienza del padre per convincere il figliolo che egli intendeva dire una stangata metaforica. "Donde viene, allora, questo modo di dire?", chiese con evidente interesse il giovinetto. "Innanzi tutto - cominciò il padre - 'essere o venire stangato' significa ricevere un colpo, in senso figurato, da cui è molto difficile risollevarsi; subire un rovescio di fortuna; essere fermato da un ostacolo o da un provvedimento che 'taglia le gambe' in una determinata attività. Per esempio, tuo fratello ha ricevuto una stangata a scuola perché è stato bocciato; la stangata, vale a dire la bocciatura, è l'ostacolo che non ha permesso a Giulio di essere ammesso alla classe superiore". L'espressione si rifà a un'usanza antica: un tempo nei magazzini dei mercanti che dichiaravano il fallimento si inchiodava una piccola stanga di legno, con i bolli dell'ufficio preposto, per indicare che erano stati chiusi al commercio, di conseguenza i mercanti avevano cessato l'attività. Di qui, per l'appunto, l'uso figurato dell'espressione.
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Letifico è la parola che proponiamo ai nostri lettori. È un aggettivo di origine dotta, provenendo dal latino "laetificare", a sua volta da "laetus" (lieto, felice, gioioso, ridente e simili) e vale che dà conforto, sollievo, gioia, letizia, secondo il contesto.

giovedì 23 giugno 2016

La fattura e la stregoneria

Continuiamo il nostro viaggio attraverso la sterminata foresta del vocabolario alla ricerca di parole omofone (parole che hanno la medesima grafia e il medesimo suono) ma di significato diverso di cui la nostra lingua è molto ricca. Facciamo tappa al termine fattura, parola omofona, appunto, ma con diversi significati.
Quello più comune è noto a tutti; se non altro basta aprire un qualsivoglia vocabolario e leggere: «l’atto e l’effetto del fare; l’opera di artigiani in genere e lista nella quale è annotato l’importo delle spese occorse per compiere un lavoro e quello richiesto, da chi l’ha eseguito, per la sua prestazione».
Ma fattura vale anche stregoneria, malia. C’è fattura e… fattura, quindi. Questa stessa parola, dunque, come può contenere significati così diversi tra loro? La diversità è solo apparente in quanto la matrice è unica: il latino factura, tratto da factus, participio passato di facere (fare). A questo punto possiamo dire che la fattura, propriamente, è l’azione del fare.
Un sarto, per esempio, quando fattura un abito non compie l’azione del fare (un vestito)? Quindi lo… fattura. La medesima cosa vale per la fattura commerciale. Colui che compila la lista del lavoro svolto con il relativo costo non fa altro che compiere l’azione del fare… la lista. Bene. La medesima cosa fa colui che compie una stregoneria.
In origine, però, la fattura non valeva stregoneria come la intendiamo oggi, bensì fare sacrifici agli dèi, attendere alle cose sacre. E in latino si diceva, infatti, facere rem sacram, fare una cosa sacra, vale a dire compiere l’azione del fare una cosa sacra operando con la mano. Di qui il significato estensivo di compiere l’azione del fare filtri, incantesimi e via dicendo. Da questa azione è nato il verbo denominale fatturare con i relativi significati: annotare in fattura le vendite effettuate; compiere un incantesimo; affatturare e manipolare; adulterare; sofisticare; alterare una sostanza mescolandovi materie estranee.
A questo proposito occorre notare, però, che non sempre adulterare e fatturare sono sinonimi l’uno dell’altro, vale a dire che non necessariamente fatturare ha un valore negativo come il cugino adulterare. E spiega benissimo questo concetto G. Cusmano nel suo Dizionario metodico-alfabetico di viticoltura ed enologia. Vediamo.
«Un vino può essere adulterato, e può essere fatturato. Si adultera un vino aggiungendogli sostanze nocive alla salute, come acido solforico, fucsina (un colorante, ndr) ecc.; si fattura unendogli sostanze innocue alla salute, come alcol, zucchero».
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La parola che proponiamo, non attestata in quasi tutti i vocabolari dell'uso, è: nittazione. Sostantivo deverbale femminile che vale "ammiccamento", "strizzata d'occhi". È tratto dal latino "nictatione(m)", dal verbo "nictare" (battere le palpebre; in senso figurato ammiccare, strizzare l'occhio).  

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Molto migliore...
È giunto il momento di sfatare una regola - inculcataci ai tempi della scuola - secondo la quale non è corretto adoperare molto davanti ai comparativi maggiore, migliore, minore e simili. È una regola del tutto arbitraria e, quindi, da non seguire.

Molto davanti ai comparativi assume valore avverbiale con il significato di grandemente, in grande misura. Si può benissimo dire, per esempio, il tuo libro è molto migliore del mio, vale a dire è in grande misura meglio del mio.

Una prova del nove? Si può dire quel libro è molto più grande? Sì. Più grande non è un comparativo che equivale a maggiore? Si attendono smentite
...




 

martedì 21 giugno 2016

Lo spilorcio

Pregiatissimo dr Raso,
le sarei veramente grato se potesse darmi qualche notizia sull'origine di "spilorcio" che, come si sa, significa avaro. Tutti i vocabolari consultati concordano: di etimo incerto. Seguo sempre le sue "noterelle" dalle quali apprendo "cose linguistiche" che - come spesso lei fa notare - non sono riportate nei testi di lingua. Il suo lavoro, quindi, è encomiabile. Grazie se prenderà in considerazione la mia richiesta. Cordiali saluti
 Ottaviano S.
Carbonia

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Cortese Ottaviano, effettivamente l' "origine etimologica" di spilorcio è quanto mai incerta, se non sconosciuta. Ecco quanto si può leggere nel dizionario etimologico di Ottorino Pianigiani.
E quanto riportano le note linguistiche al "Malmantile racquistato" (un poema burlesco, ndr): «Spilorceria: sordidezza, avarizia. (È probabile che) questa parola venga da "pilorci", che i pellicciai chiamano quei ritagli di pelle, che, non essendo buoni a mettere un'opera, gli riducono in spazzatura, la quale poi vendono per governare i terreni».

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Riguardo "a" qualcosa o riguardo qualcosa? Senza dubbio, riguardo "a". Si veda qui (Crusca).

lunedì 20 giugno 2016

Sul verbo "fare"

Due parole, due, sul verbo "fare" perché viene adoperato in tutte le sale - come usa dire - e ciò non è affatto ortodosso sotto il profilo prettamente grammaticale. Occorre dire, infatti, che l'uso del verbo fare in luogo del verbo dire, per esempio, è linguisticamente accettabile solo quando nel corso di una narrazione o di un dialogo sottintende anche l'azione del gestire e vuole esprimere il concetto o, meglio, l'idea di un intervento repentino: m'incontra per strada, per caso, e mi fa (cioè: mi dice): "Quando sei tornato?" È bene evitare - sempre che si voglia scrivere e parlare rispettando le "leggi" della lingua - alcune locuzioni in cui il verbo fare è adoperato nella forma riflessiva apparente: farsi l'automobile e simili; farsi i baffi; farsi la barba; farsi i capelli; farsi le unghie; farsi un dovere; farsi cattivo sangue; farsene una passione; farsene una malattia e tante altre. In tutte le espressioni summenzionate il verbo fare può essere sostituito, correttamente, con un altro piú appropriato. Farsi la barba, per esempio, si può sostituire con il verbo "radersi", cosí come farsi i capelli si può sostituire con "tagliarsi" i capelli.
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Ancora una parola - non a lemma nei vocabolari - che proponiamo all'attenzione dei nostri lettori: suismo. Sostantivo maschile, tratto dal latino "suus", sinonimo di egoismo.

sabato 18 giugno 2016

I borghesi son sempre cortesi?

Abbiamo visto, altre volte, che la nostra lingua è ricca di parole che con il trascorrere del tempo hanno acquisito un significato diverso da quello originario, da quello desunto dall’etimologia. Oggi vediamo la storia del borghese.
Ci affidiamo a Lodovico Griffa. I borghesi non sono cortesi? Strana domanda, direte. La cosiddetta borghesia, di solito, si vanta di essere beneducata e di mantenere rapporti con il prossimo in termini civili e cortesi. Allora perché abbiamo fatto questa domanda? Perché essa sarebbe stata assai giustificata agli inizi della nostra lingua, otto o nove secoli fa. Vediamo insieme le istituzioni e la mentalità degli uomini di quei tempi.
Cortese deriva dal latino medievale "curtensem" 
sua volta legato al sostantivo "curtem"
. Così si chiamava il castello medievale, attorno al quale sorgeva il borgo, ove abitavano i dipendenti più umili e gli artigiani, gente che non metteva piede nella corte se non per portare i prodotti del suo lavoro o per prestare i suoi mal ricompensati servigi al feudatario.
Cortese era dunque chi viveva a corte, e borghese chi viveva nel borgo. Poiché nel castello gli usi, i comportamenti, gli ideali di vita erano, secondo la mentalità di allora, civili e gentili, l’aggettivo cortese divenne sinonimo di nobile e raffinato, in contrasto con villano, abitante della villa o campagna, e di borghese, abitante del borgo.
Cortese non poteva essere, in quei tempi, chi non era ammesso a frequentare la corte. Però, a poco a poco, i borghesi perfezionarono i loro sistemi di lavoro, aumentarono i loro redditi e le loro ricchezze, ingentilirono i loro costumi, mentre i borghi divennero, a poco a poco, liberi comuni, sottraendosi alla giurisdizione del feudatario e spesso contrapponendosi a lui.
Con le ricchezze vennero anche la cultura e il potere e nuove e più raffinate abitudini di vita. Lentamente la classe borghese che, non nobile per nascita, trae potere e lustro dalla sua prosperità economica, è riuscita a emergere e a contrapporsi, come classe dirigente e colta, a quella feudale, staccandosi dalla plebe, da cui proveniva, e facendo classe a sé. Così il borghese è diventato anch’egli cortese.
A proposito di cultura è utile ricordare che c’è la coltura e la cultura (anche se alcuni vocabolari ritengono i due termini una variante reciproca). Il primo termine (coltura) si usa riferito alla coltivazione di alcuni prodotti della terra; il secondo nel significato di istruzione, civiltà.
Abbiamo, quindi, la viticoltura e la cultura libresca.
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La parola che portiamo all'attenzione dei cortesi lettori - non registrata nella quasi totalità dei vocabolari dell'uso - è il verbo, di origine dotta, ignoscere. È pari pari il latino "ignoscere" e sta per perdonare, condonare, indulgere, scusare e simili.

giovedì 16 giugno 2016

La menzogna e la bugia

Alcuni amici blogghisti ci hanno scritto pregandoci di spiegare - se esiste - la differenza che intercorre tra la bugia e la menzogna. I due termini - si chiedono i nostri cortesi interlocutori - non sono sinonimi, vale a dire non hanno press’a poco lo stesso significato? Come mai, per tanto, alcuni preferiscono la bugia alla menzogna? Gentili amici, sarebbe come domandarci per quale motivo taluni preferiscono dire "bello", talaltri, invece, "grazioso". La differenza "sostanziale" - per quanto ne sappiamo - non esiste; esiste, invece quella etimologica, nel senso che "bugia" ha origini barbare, mentre "menzogna" è schiettamente un termine italiano perché i suoi natali sono latini. Probabilmente - a nostro modo di vedere - chi preferisce usare il termine bugia (vocabolo dal "sapore bambinesco") vuole togliere alla parola quel senso di "pesantezza" che ha, invece, la menzogna. Ma, ripetiamo, è solo un nostro modestissimo parere, avvalorato dal fatto che con "bugia" si intende anche quella macchiolina bianca sulle unghie (si dice, infatti, ai bambini che si forma quando dicono le bugie) il cui nome scientifico è "leuconichia". Ma veniamo alla differenza etimologica, cominciando dal nome barbaro. Se apriamo un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana alla voce "bugia" leggiamo: asserzione contraria alla verità. La sua origine, come dicevamo, non è squisitamente italiana ma franco-germanica: bauzia ("bausi") che significa "cattiveria", "frode", "malizia". Da bugia è stato coniato il verbo "bugiare" (dire bugie) il cui uso, però, è desueto: molti vocabolari hanno relegato questo verbo nella soffitta della lingua. Sono vivi e vegeti, invece, gli altri derivati: bugiardaggine, bugiarderia (serie di bugie) e bugiardo.
Piú complessa l’origine di "menzogna" (con la "z" aspra, come ci fa notare il DOP) tratta dal tardo latino "mentionia", da "mentiri" (mentire). Ma andiamo con ordine. Dal verbo latino "mentiri", tratto da "mens, mentis" (mente, ‘cervello’), che in origine valeva "fingere con la mente", attraverso vari passaggi sono nate le forme "mentionia" e "mentionéa", quest’ultima piú vicina alla forma attuale italiana. Chi dice una menzogna, quindi, sotto il profilo strettamente etimologico "finge con la mente", fa, insomma, un’ "asserzione contraria alla verità" (ed ecco "scoperta" la somiglianza con la bugia). Quanto alla desinenza "-ogna" (menz’ogna’) o sta per "umnia", come nel latino "calumnia", divenuta "calugna" e italianizzata "calunnia" o come finale aggettivale femminile - sempre dal latino - "-onéa", che si riscontra anche nelle voci dialettali piemontesi come, per esempio, in "ambriac-ogna" (ubriachezza) e in "tisic-ogna" (tisichezza).
Con "bugia" - è interessante - sono state coniate varie locuzioni. Si veda qui.

 

mercoledì 15 giugno 2016

C'è allettare e... allettare

Breve viaggio attraverso l’immensa foresta del vocabolario alla ricerca di parole omofone (stesso "suono", stessa pronuncia), ma dal significato diverso, facendo tappa al verbo “allettare”. In questo caso la parola, anzi il verbo, oltre a cambiare di significato cambia anche la “provenienza etimologica”. Vediamo. Il significato principe del verbo in questione è “attirare con lusinghe, piacevolezze o promesse” ed è il corrispettivo latino “allectare”, intensivo di “allicere” (‘indurre con dolcezza a qualcosa’): l’idea di una crociera mi alletta molto (si clicchi qui). C’è da dire - per onestà linguistica - che questo verbo ha perso, oggi, la natura ‘maligna’ del suo genitore (‘prendere al laccio’, quindi ‘attrarre con lusinghe’) e vale, come testé visto, “attrarre con l’aspettazione di cose piacevoli (la crociera)”. L’altro significato del verbo è quello di “costringere al letto”, ma non ha nulla che vedere con il latino “allicere” essendo di formazione - potremmo dire - piú moderna essendo composto con la preposizione “a” e il sostantivo “letto”, dal latino “lectus” (‘giaciglio’). E concludiamo il viaggio con il vocabolo “colmo”, che può essere tanto sostantivo quanto aggettivo e con due distinti significati: “parte piú alta di una prominenza” (sostantivo) e “pieno fino all’orlo” (aggettivo). L’origine, però, è un po’ diversa. Il sostantivo, che in senso figurato si adopera anche per indicare il “grado piú alto che è possibile pensare, immaginare o raggiungere” è il latino “culmen, culminis”: il colmo della vita (l’età matura). Con lo stesso nome - e chi non lo sa? - si indica anche un particolare tipo di indovinello che si risolve, nella maggior parte dei casi, in un bisticcio di parole. Per quanto attiene all’aggettivo bisogna rifarsi, invece, al participio passato sincopato del verbo colmare: colm(at)o. La sincope, è bene ricordarlo, è la caduta di una o piú lettere nel corpo di una parola. Nel caso specifico da “colmato” sono cadute la “a” e la “t” (ed è rimasto colmo).

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Ancora una parola non attestata nei maggiori vocabolari dell'uso, ma prettamente aulica: dimicazione. Sostantivo femminile che vale lotta, battaglia, guerra. È tratto dal latino "dimicatione(m)", dal verbo "dimicare" (lottare, combattere e simili, ma anche rischiare, mettere a repentaglio).

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Fiorista e fioraio, gelatiere e gelataio sono sinonimi? Qui la risposta di Riccardo Cimaglia (Crusca).

martedì 14 giugno 2016

Parole "agricole"

La nostra lingua è ricca di parole tratte dal mondo agricolo e "trasportate" in quello  cosí detto culturale, ricevendo, in tal modo, una sorta di blasonato. Non c'è uomo di cultura, quindi, che parlando o scrivendo possa fare a meno di ricorrere a parole "contadinesche" nobilitate dall'uso. Tra queste parole le piú numerose sono quelle tratte dagli alberi.  Vediamo assieme le piú comuni  e, ovviamente,  le piú conosciute (ma adoperate inconsciamente). Quando, per esempio, chiamiamo il nostro corpo "tronco" confrontiamo la struttura del tronco umano con quella di un albero. Allorché descriviamo i rapporti di parentela parliamo di "radice", di "ramo", di "ceppo" e, un po' scherzosamente, di "rampolli". E quando parliamo di cultura non ci riferiamo alla "coltura", vale a dire alla "coltivazione"? Una persona si dice colta quando "coltiva", appunto, l'animo, la mente. E cosí il "culto", che in latino valeva innanzi tutto "coltivazione" ha finito con l'acquisire l'accezione specifica di "onore reso alla divinità". E a proposito di cultura, taluni usano indifferentemente questo termine riferito all'attività dello spirito, dell'animo, della mente e a quella, chiamiamola, "campestre": la cultura delle viti. È bene fare, invece - ed è un obbligo per chi ama la lingua - un distinguo. Nel significato di educazione morale, intellettuale,  useremo "cultura" (con la "u"):  avere un'ottima cultura, una cultura mediocre; nell'accezione, invece,  di "coltivazione del terreno" adopereremo "coltura" (con la "o"): la coltura degli ortaggi, la fioricoltura, la viticoltura ecc. E per concludere queste modeste noterelle sull'uso di parole che abbiamo definito nobilitate, vediamo un vocabolo agricolo che ricorre di frequente, purtroppo, in fatti di sangue: crivellato. Non si legge, infatti, sulla stampa, che "gli ostaggi sono stati crivellati di colpi" dai terroristi? Il crivello, come si sa, è uno strumento con il quale si vaglia il grano. Crivellare di colpi vale, letteralmente, "fare tanti buchi quanti se ne possono vedere in un crivello".    
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La parola che segnaliamo all'attenzione dei lettori è: favere. Verbo di origine dotta - non "lemmato" nei comuni dizionari dell'uso - essendo pari pari il latino favere  che vale proteggere, favorire, appoggiare, promuovere, assecondare e simili.

domenica 12 giugno 2016

Il ministro (servo) e la minestra

Il nostro idioma è ricco di parole “di tutti i giorni”, di parole, cioè, di uso comune che... usiamo tutti i giorni e che conosciamo “per pratica” ma dal significato “intrinseco” nascosto. Chi non conosce, ad esempio, il significato “scoperto” di minestra, vocabolo sulla bocca di tutti e che ha generato molti modi di dire, tra i quali – quello più conosciuto – “è sempre la solita minestra”, vale a dire “è sempre la stessa cosa”? Se non altro basta aprire un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana e leggere, alla voce in oggetto: minestra – vivanda per lo più brodosa che si mangia come primo piatto; pietanza di riso o pasta, in brodo con verdura o legumi o cotta in acqua, scolata e condita e, in senso figurato, “operazione”, “faccenda”. Questo, dunque, il significato “scoperto”. E quello “nascosto”? Che cosa è, insomma, questa “minestra”? Lo scopriamo se risaliamo all’origine del vocabolo che è tratto dal verbo dell’italiano antico “minestrare”, vale a dire “servire”, particolarmente “porgere”, “versare i cibi a tavola”. E nei tempi antichi chi serviva i cibi a tavola? Il “minister”, cioè il servo, il domestico. Da “minister” (tratto dal latino “minus”, ‘inferiore’), vale a dire da “colui che prepara e serve le vivande”, si è fatto il latino “ministrare”, da questo l’italiano antico “minestrare” (‘somministrare’) e, infine, “minestra” che propriamente vale “vivanda servita o da servire in tavola”.
Questo vocabolo – dicevamo all’inizio delle nostre noterelle – ha generato molti modi di dire. Vediamoli assieme. “Mangiare questa minestra o saltare dalla finestra”: accettare una condizione o ricevere di peggio; “minestra riscaldata”: cosa ormai passata che si vuol far rivivere a tutti i costi; “essere un’altra minestra”: è tutt’altra cosa; “mangiare la minestra in testa a qualcuno”: essere più bravo in qualche cosa; “essere il prezzemolo d’ogni minestra”: intrufolarsi dappertutto.
E a proposito di minestra, come non riportare due frasi celebri che hanno nobilitato questo vocabolo dal... “sapore” contadino? La prima la estrapoliamo dalle “Opere edite e inedite” di Carlo Cattaneo: niente di più stolto del ricco che trova troppo buona la minestra del contadino! Il contadino miserabile isterilisce la terra e spianta il possidente. La seconda, da Pellegrino Artusi, nel suo “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”: una volta si diceva che la minestra era la biada dell’uomo.
E concludiamo questa modestissima chiacchierata con un’altra parola di uso comune e dal significato “nascosto”: mansarda. Cominciamo con il dire che non è un termine schiettamente italiano essendoci giunto dal francese “mansarde”. Il significato “scoperto”, dunque, tutti lo conosciamo: piccola sopraelevazione di alcuni edifici a forma di abbaino con tetto a due spioventi e, per estensione, soffitta. Il significato “coperto” nasconde il nome dell’architetto francese François Mansart (1598-1666) che introdusse questo tipo di costruzione riconvertendo i sottotetti e già usati come abitazione nel periodo medievale. Quanto ad abbaino, cioè al lucernario, vale a dire all’apertura sopra i tetti, per “salirci” sopra, o per dar luce a camere che stanno sotto il tetto viene dal genovese “abbaén” (fratino, piccolo abate). “Da un documento del Quattrocento – ci fa sapere Gianfranco Lotti – si apprende che in Liguria questo termine era in uso per indicare la ‘tegola di ardesia’, di colore simile a quello dell’abito di certi frati. A maggior ragione fu chiamata ‘abbaino’ ogni finestra , praticata sui tetti, con copertura a due spioventi, la cui forma ricorda il cappuccio dei monaci”. Restando in tema di etimologia (e per assonanza), è interessante scoprire l’origine di “abate” che, attraverso il latino “abbate(m)”, passando per il greco ecclesiastico ci conduce all’aramaico “ab” (‘padre’). Gli abati, i frati, non sono i nostri padri?

sabato 11 giugno 2016

Somigliare, assomigliare, rassomigliare

I tre verbi sopra menzionati sono interscambiabili, come possiamo leggere in un bell'articolo di Paolo D'Achille (Crusca). Noi aggiungiamo, sommessamente, che si possono adoperare transitivamente e intransitivamente; possiamo dire, per tanto, che Giuseppe somiglia tutto suo padre o che Luigino somiglia tutto a suo fratello.

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La parola che portiamo all'attenzione dei lettori è: salmata. Sostantivo denominale femminile che sta per "discorso lungo e noioso". Derivato da salmo con l'aggiunta del suffisso "collettivo" -ata.

venerdì 10 giugno 2016

Spezzare una lancia

Pregiatissimo dott. Raso,
ho scaricato il suo prezioso libro "Un tesoro di lingua"; è veramente un tesoro da custodire con cura perché dà alcune informazioni linguistiche che non sempre si trovano nei normali testi grammaticali come, per esempio, la differenza tra "defatigante" e "defaticante". Io finora ho sempre detto "defatigante", non sapendo di affermare il contrario di ciò che intendevo dire. Nel suo libro tratta anche alcuni modi di dire, ne approfitto per chiederle, cortesemente, donde proviene la locuzione "spezzare una lancia". Grazie in anticipo se avrà la bontà di rispondermi e complimenti per il suo encomiabile lavoro in difesa della nostra cara lingua italiana.
Cordiali saluti.
Rossano V.
Treviso

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Cortese Rossano, il modo di dire completo cui lei allude è "spezzare una lancia a favore di qualcuno" e significa perorarne la causa, parlare in sua difesa di fronte a chi lo attacca. L'espressione fa riferimento ai tornei cavallereschi dove i cavalieri erano sempre pronti a battersi per difendere l'onore di qualcuno, ma soprattutto per difendere una dama. Il primo scontro avveniva con le lance che, molto spesso, si spezzavano al primo impatto.
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La parola proposta, che non tutti i vocabolari attestano perché ritenuta desueta, è: equite. Sostantivo maschile che vale "cavaliere", viene dal latino "equite(m)", da "equus" (cavallo).

mercoledì 8 giugno 2016

Giustiziare e comminare

Un'interessante disquisizione della Crusca sui verbi summenzionati.

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La parola che proponiamo all'attenzione dei lettori, non "lemmata" nei più comuni vocabolari dell'uso, è: rupofagia. Sostantivo femminile con il quale si indica il desiderio patologico di cibarsi di rifiuti o di sporcizia.

martedì 7 giugno 2016

La "lingua" della stampa


Da un quotidiano in rete:


(Titolo della prima pagina, in quella interna è diverso)

Ci eravamo presi la briga di segnalare la "svista" (quel "di" di troppo) alla redazione, ma inutilmente. Evidentemente il corpo redazionale è convinto della correttezza di quel "di". La nostra segnalazione - crediamo - sarà stata ritenuta errata...  Vediamo, allora, l'uso corretto di "dopo" dando la 'parola' al linguista Vincenzo Ceppellini: «Avverbio di tempo. Indica il tempo posteriore (Ci vedremo dopo; Dopo discuteremo). Talora ha valore di congiunzione (Dopo che sarai arrivato) (...). Usato come preposizione si costruisce direttamente, o con la preposizione 'di' davanti ai pronomi personali: dopo la sfilata; Dopo di te; Dopo tutti gli altri (...)».
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 La parola segnalata da "unaparolaalgiorno.it": concertare.

lunedì 6 giugno 2016

La metafora

Onestamente non ricordiamo se l'argomento che stiamo per trattare sia già stato... trattato, nel caso ci scusiamo "preventivamente". Vogliamo parlare di una figura retorica chiamata "metafora", ritenuta la regina (delle figure retoriche) in quanto è il tropo piú importante e quello che ha maggiormente interessato (e interessa tuttora) gli studiosi di lingua. Le definizioni della metafora sono state molte nella storia della retorica (arte del parlar bene), noi riportiamo - e facciamo nostra - quella di Aldo Gabrielli, uno dei maggiori linguisti del XX secolo: «Dal greco "metaphorà", trasferimento, vocabolo composto di "metà", altrove, e "phèro", porto: è il traslato per eccellenza, per il quale si trasferisce a un vocabolo il significato di un altro vocabolo. Per fare un esempio, se noi diciamo "quell'uomo è una lumaca" abbiamo fatto una metafora, in quanto abbiamo addirittura identificato l'uomo con l'animale. La ragione artistica di questo traslato sta nella sostituzione di un'immagine concreta, piú viva e colorita (lumaca) all'idea astratta (lentezza)». La metafora, insomma, se adoperata con accortezza, dà un tocco di classe stilistica ai nostri scritti perché consiste nel trasferimento di un'espressione che indica una qualità, una cosa, una circostanza o quant'altro, dal suo ambito proprio a un ambito diverso dal primo che, però, ha qualcosa di essenziale in comune con questo. Attenzione, però, a non confondere la metafora con la similitudine (la prima "trasferisce" il significato di un vocabolo a un altro, la seconda lo "paragona"). Non a caso abbiamo scritto, all'inizio, che la metafora è la regina dell' "arte del parlare e dello scrivere" (retorica), una ragione c'è: è la figura retorica che ha dato il maggior contributo alla formazione del lessico. Una riprova? La "testa", nell'accezione a tutti nota di "parte superiore del corpo umano e di quello degli animali", proviene da un vocabolo latino che significava "vaso di terracotta" e scherzosamente era adoperato nel mondo dei nostri antenati romani pressoché nello stesso significato che oggi noi diamo al termine "zucca" per indicare, metaforicamente appunto, la testa. C'è da dire, e concludiamo queste noterelle, che molto spesso la metafora nasce anche per necessità... linguistica (lessicale); ma non bisogna abusarne.

domenica 5 giugno 2016

Essere pettegolo come una taccola

Questo modo di dire dovrebbe esser noto agli amici lettori veneti derivando, la voce pettegolo, dal dialetto veneto, appunto, "petegolo" (propriamente "piccolo peto", vale a dire "rumore intemperante e sgradevole"). Il pettegolo, infatti, con le sue "chiacchiere e commenti maliziosi su altre persone" non emette sempre un chiacchierío, quindi un "rumore sgradevole"? E perché come una taccola? È presto detto. La taccola, un uccello dei passeriformi simile alla cornacchia, vive in comunità e si unisce spesso a gruppi di corvi e stormi emettendo un verso continuo e articolato che unito al verso degli altri uccelli dà la sensazione di un interrotto chiacchiericcio. Di qui il "paragone metaforico" con la persona pettegola. Alcuni Autori - occorre dirlo per "onestà linguistica" - fanno derivare la voce pettegolo o, meglio, la connettono a "putus", ragazzo, attraverso una forma diminutiva di "puticolus" ('fanciullo' e i fanciulli - si sa - non stanno mai zitti, ndr); altri a "petere", andare verso, ricercare e il "petente", vale a dire il "richiedente" - anche questo si sa - non sta mai zitto: con le sue "richieste" diventa assillante. Il modo di dire si adopera anche nella variante "pettegolo come una portinaia", vale a dire chiacchierone come la tradizione dipinge le portinaie, che solitamente si intromettono nei fatti degli altri e sanno tutto ciò che riguarda gli inquilini del palazzo.
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La parola proposta da questo portale - non attestata nella maggior parte dei vocabolari dell'uso - è: oblatratore. Sostantivo maschile deverbale il cui significato è "maldicente", "denigratore", "calunniatore" e simili. È tratto dal verbo latino "oblatrare", letteralmente "latrare contro";  con uso figurato vale "scagliarsi contro qualcuno", quindi calunniarlo e simili.               

sabato 4 giugno 2016

Non avere il becco di un quattrino e fare una grigia

Vi sarà capitato senz'altro - in alcune circostanze - di non avere il becco di un quattrino e fare, quindi, una figuraccia, la cosí detta grigia. Tutti conosciamo il significato delle due espressioni, pochi, forse, conoscono le origini dei due modi di dire. Vediamole assieme. Cominciamo dalla seconda  locuzione, "fare una grigia", fare, cioè, una figuraccia, una figura meschina.  Quest'espressione, dunque, si rifà direttamente al colore grigio nel significato figurato di "scialbo", "meschino": che grigia! (sottintendendo figura). Varie sono, invece, le ipotesi circa l'origine del "becco di un quattrino". Riportiamo quella - a nostro avviso  piú credibile - che fa derivare il modo di dire dal fatto che un tempo svariate monete recavano su una delle due facce l'immagine di un volatile, per esempio quella dell'aquila imperiale.
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La parola proposta all'attenzione dei lettori è: parvipendere. Verbo di origine dotta che vale "stimare poco", "disprezzare", "tenere in poca considerazione" e simili. È pari pari il latino parvipendere, composto con "parvum" (poco) e "pendere" (valutare, stimare). E quella, di ieri ("barbara", purtroppo), proposta da "unaparolaalgiorno.it": pisquano.

giovedì 2 giugno 2016

Un tesoro di lingua



La nostra casella di posta elettronica è "intasata"  dai messaggi dei nostri gentili lettori che domandano dove possono reperire il libro "Un tesoro di lingua". Il volume, lo abbiamo scritto altre volte, non è in vendita (è fruibile collegandosi a www.nuovedirezioni.it). Il cartaceo si può richiedere, comunque, all'editore: Associazione Nazionale Cittadino e Viaggiatore  50125 FIRENZE via San Niccolò, 21
telefoni : 055 2469343 / 328 8169174
email :
info@nuovedirezioni.it
telefax : 055 2346925

mercoledì 1 giugno 2016

Ancora sulla lingua "biforcuta" della stampa

 Ci dispiace dover censurare, di tanto in tanto, la lingua "biforcuta" degli operatori dell’informazione, quelli della carta stampata particolarmente, anche se molti di questi posseggono una laurea in lettere e si definiscono linguisti; non è sufficiente una laurea in materie letterarie per potersi fregiare del titolo di linguista.
Non possiamo, dunque, rimanere impassibili davanti a orrori ortografici di cui è infarcita la stampa e gli opinionisti non possono più addebitare gli errori ortografici alla svista dei correttori di bozze, categoria professionale ormai estinta. Vediamo, dunque, sfogliando a caso qualche quotidiano, alcune indecenze ortografiche, in corsivo gli orrori.

L’arrestato, per farsi compatire, camminava a 
d’ubriaco; con quel pò pò di alterigia era naturale che tutti lo snobbassero; nella casa degli orrori è comparsa la scritta villa d’affittare; in quella notte tranquilla gl’astri brillavano sullo sfondo azzurro;nessun’ uomo, di questi tempi, può sentirsi tranquillo se abita una villa isolata; qual’è il difetto peggiore, domandò all’intervistata; il suo comportamento è veramente d’ammirare; gl’umori degli astanti non lasciavano presagire nulla di buono; il suo modo di fare è pressocché inaccettabile; il ragazzo è uscito dal coma grazie all’attente cure della mamma; sei proprio un bel angelo, disse la mamma al figlioletto; fate attenzione, recitava un cartello affisso nella fabbrica, gl’acidi sono nocivi alla salute; l’auto dei banditi non ha rispettato l’alt della polizia e ha accellerato la corsa; l’uomo è stato investito sulle striscie pedonali; il ministro ha, però, ribadito che non tutti beneficieranno delle agevolazioni.
Potremmo continuare, ma non vogliamo tediarvi oltre misura.


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La parola che ci piacerebbe fosse "riesumata", perché aulica a nostro avviso, e rimessa a lemma nei vocabolari è: làulo. Sostantivo maschile che vale "avo", "nonno". È un denominale derivato da "avolo" e questo dal latino "avulus" con agglutinazione dell'articolo.