giovedì 31 gennaio 2013

Fare le scarpe

Numerosi amici ci hanno chiesto di spiegare il significato e l’origine della locuzione che avete appena letto. Quest’espressione, notissima negli ambienti di lavoro, significa danneggiare qualcuno in modo subdolo, riferendo ai superiori le presunte malefatte – a insaputa della vittima, naturalmente, e fingendosi amico – allo scopo di prendergli il posto e arrivare, cosí, “velocemente”, alla carica tanto ambita. L’origine del modo di dire non è molto chiara. Alcuni danno al verbo fare il significato gergale di “rubare”: il malfattore, approfittando della fiducia della vittima, che lo ritiene amico, le sfila le scarpe mentre dorme. Italo Marighelli invece, nel suo “Parole della naia”, dà questa spiegazione: «Chi muore lascia le scarpe a chi resta, cosí si è diffuso fra i soldati del primo Novecento il “lasciare le scarpe” per dire morire in guerra, dove uno è portato anche ad anticiparsi l’eredità scalzando il vivo. E di qui sarà arrivato quel “far (come togliere) le scarpe” al prossimo, ossia superare (qualcuno) in carriera mettendolo praticamente nell’impossibilità di percorrere la strada della competizione gerarchica: “far le scarpe a uno” - nota infatti il Lapucci fra i modi di dire italiani del nostro secolo - (cioè) dare cattive referenze di uno, riferirne ai suoi superiori, a sua insaputa, le malefatte in modo da comprometterne il prestigio, ma è espressione che non persuade semanticamente e trova ostacoli d’ordine cronologico».

* * *

Gentili amici, amatori del bel parlare e del bello scrivere, prima di cliccare sul collegamento in calce fornitevi di un cardiotonico (non vorremmo avervi sulla coscienza). Troverete in nero la parola che potrebbe compromettere il vostro muscolo cardiaco.

https://www.google.it/search?q=%22cospiquo%22&btnG=Cerca+nei+libri&tbm=bks&tbo=1&hl=it#q=%22cospiquo%22&hl=it&tbo=d&tbm=bks&psj=1&ei=N7sJUZ3LKMfR4QT56YH4Cw&start=10&sa=N&bav=on.2,or.r_gc.r_pw.r_cp.r_qf.&fp=3a3d2ded6163f137&biw=1024&bih=638

martedì 29 gennaio 2013

Gli a capo speciali

Abbiamo notato che molte persone si trovano in difficoltà sulla divisione delle sillabe in fin di riga (o di rigo) con le parole formate con prefissi “speciali”: ben-, in-, mal-, cis-, dis-, pos-, trans- o tras-. Le parole così composte possono dividersi in sillaba senza tener conto del prefisso (che fa sillaba a sé) oppure considerare il prefisso parte integrante della parola. Ci spieghiamo meglio con un esempio. Dispiacere si può dividere considerando il prefisso sillaba a sé; avremo, quindi, dis-pia-ce-re, oppure, “normalmente”, di-spia-ce-re. Trastevere – altro esempio – si può dividere secondo l’una o l’altra “regola”: Tras-te-ve-re o Tra-ste-ve-re. Consigliamo vivamente, a coloro che non sono in grado di distinguere con assoluta certezza i prefissi componenti, di attenersi – nell’andare “a capo” – alla normale divisione sillabica. Eviteranno, in questo modo, di incorrere in spiacevoli strafalcioni. In caso di dubbio si può consultare una buona grammatica dove, nel sillabo*, sono riportati tutti gli argomenti trattati, messi anche in ordine alfabetico.


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* Dal vocabolario Palazzi: sìllabo sm. indice, catalogo; e dicesi specialmente di quello degli errori condannati in materia religiosa, morale e politica pubblicato dalla Curia Romana nel 1864.





lunedì 28 gennaio 2013

Il TV e la TV

Un articolo di Vera Gheno, della redazione consulenza linguistica della Crusca.



L’intrinseca differenza tra “guardare la TV” e “fissare il TV”

Partiamo da alcune considerazioni preliminari. In italiano esistono due termini vicini: televisione e televisore. Vediamo le definizioni dal GRADIT (abbiamo sciolto la maggior parte delle abbreviazioni per facilitare la lettura):

televisione/televi'zjone/ (te-le-vi-sio-ne) s.f. [Alto Uso]

[1909; composto di 2tele- e visione, cfr. ingl. television, 1909]

1a[AU][vocabolo di uso Tecnico Specialistico] tecn. trasmissione a distanza di immagini in movimento o fisse per mezzo di onde radio o, in speciali circuiti chiusi, via cavo: l'invenzione della t., t. in bianco e nero, a colori, t. a circuito chiuso, via cavo

1b[AU] la trasmissione dei programmi televisivi a livello nazionale, regionale, ecc. (accorc. tele): i programmi della t., cosa danno stasera alla t.?

2[AU] il programma o i programmi trasmessi (accorc. tele): guardare la t.

3a[AU] gli impianti per tale trasmissione; ente statale o organizzazione privata che li gestisce; l'insieme delle persone che operano per tale trasmissione o delle attività che vi sono connesse: un presentatore della t., il mondo della t.

3b[AU] per antonomasia, la televisione di stato: lavorare alla t., la t. italiana, tedesca

4[AU] familiare, impropriamente, televisore (accorc. tele): accendere, spegnere la t., comprarsi una t. nuova

televisore/televi'zore/ (te-le-vi-so-re) s.m. [AU]

[1929; comp. di 2tele- e -visore, cfr. ingl. televisor, 1926]

apparecchio che riceve le immagini e i suoni trasmessi mediante il sistema della televisione: t. da 19, 21 pollici, t. portatile, passare le serate davanti al t.
t. in bianco e nero, a colori, che trasmette immagini in bianco e nero, a colori

Il termine televisione è quindi più datato, mentre televisore compare in Italia vent’anni più tardi. Chiunque può ricordare che il termine televisione è stato comunemente usato a lungo (ed è ancora largamente usato) anche per indicare l’oggetto, quindi nell’accezione 4. Solo più di recente, forse anche in seguito a una certa demistificazione dell’apparecchio televisivo, si è diffuso l’impiego, tecnicamente più corretto, di televisore per indicare in maniera specifica l’apparecchio per ricevere le trasmissioni televisive; ciò nonostante, l’uso di televisione appare tuttora maggioritario.

Passiamo a considerare cosa scrivono i dizionari specificamente di TV.

Il GRADIT, il Sabatini Coletti e il Vocabolario Treccani confermano che, a oggi, la sigla TV viene normalmente ricondotta alla parola televisione e considerata essa stessa sostantivo femminile invariabile, in uso dal 1956. È dello stesso avviso anche il DOP.

Il GRADIT lemmatizza TV color a parte come locuzione sostantivale maschile invariabile, esotismo inglese, attestato in italiano dal 1972 (il GDLI specifica, come fonte per quell’attestazione, il "Corriere della Sera" del 27 agosto di quell’anno); per essere precisi, tuttavia, rileviamo che in inglese tale espressione non esiste con quel significato (tv color, infatti, in inglese indicherebbe qualcosa come ‘il colore della televisione’), mentre viene usato colo(u)r TV o television, nel rispetto del consueto ordine inglese determinante-determinato. In sostanza, quindi, per tv color si dovrebbe parlare piuttosto di pseudoanglicismo.

Già nell’edizione 1994, lo ZINGARELLI registra invece TV come sostantivo femminile invariabile ma anchemaschile nel significatodi televisore, che marca come familiare; in calce al lemma, viene riportata anche la polirematica TV color per ‘televisore a colori’. Nell’ultima edizione dello stesso dizionario, la 2013, la sostanza rimane all’incirca la stessa, con tre accezioni diverse della sigla TV:

A- s.f.inv. accorc. di televisione;B -in funzione di agg.inv.(posposto a un sost.)televisivo: la programmazione, il canone tv; C - s.m.inv. (fam.) televisore
tv color, televisore a colori.

Infine il GDLI, nel Supplemento 2004, considera il lemma TV come sostantivo femminile invariabile, con l’unica differenza di ricondurlo sia a televisione che a televisore.

Dunque, tra i vari dizionari presi in considerazione, solo lo Zingarelli pare recepire l’impiego maschile della sigla TV usata da sola, mentre appare più ampiamente attestata l’espressione maschileTV color.

La diffusione di il TV sembra tuttavia incontrovertibile, seppure ancora minoritaria; basta eseguire una ricerca con Google per averne la conferma.

Possiamo ipotizzare alcune motivazioni per l’ampliamento di questo uso. Il passaggio da televisore a il TV è quasi certamente provocato dal precedente impiego di TV color, espressione brachilogica* particolarmente adatta a un uso pubblicitario in sostituzione di televisore a colori.

Nel momento della sostituzione degli apparecchi in bianco e nero con quelli a colori (ricordiamo che le prime trasmissioni regolari a colori partirono, in Italia, nel 1976), la specificazione aveva particolare rilevanza, dato che l’apparecchio in grado di ricevere le trasmissioni a colori era ancora poco diffuso, e rappresentava una specie di status symbol. Oggigiorno, è chiaro che le innovazioni tecnologiche nel comparto radiotelevisivo hanno rivoluzionato completamente il mercato. Il colore si dà per scontato, mentre vengono pubblicizzati i TV LED o i TV 3D, generalmente, ma non esclusivamente, al maschile. Da una primitiva diffusione di il TV color si può quindi pensare a un passaggio alla sola sigla TV usata, però, al maschile, quando riferita al televisore in senso prettamente fisico, all’oggetto TV.

Il genere di TV cambia quindi a seconda che la sigla venga ricondotta a televisione o a televisore. In particolare, si diceva, televisione ha un uso più astratto: “guardo la televisione” sta per ‘seguo i programmi televisivi’, non per “sto a fissare il televisore”; “ho comprato un televisore”, dal canto suo, pone l’enfasi sull’oggetto fisico e non su quello che esso veicola. Forse il TV ha avuto una spinta alla diffusione rispetto a la TV nel momento in cui si è iniziato a considerarla uno dei molti apparecchi tecnologici sparsi per casa, piuttosto che una scatola magica...
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* Questo termine, probabilmente, è poco conosciuto, riportiamo la trattazione del Treccani:

BrachilogiaVocabolario on line

brachilogìa s. f. [dal gr. βραχυλογία, comp. di βραχυ- «brachi-» e -λογία «-logia»]. – 1. In senso largo, brevità del discorso, concisione di stile, e quindi atteggiamento stilistico contrario alle amplificazioni retoriche, alla verbosità. 2. In senso più specifico, con riferimento ai mezzi mediante i quali si ottiene la concisione, il termine indica: a. L’uso di espressioni più brevi rispetto a quelle adoperate ordinariamente, come sarebbero, per es., le frasi «affermava doversi procedere con cautela» opp
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domenica 27 gennaio 2013

Ecc. o etc.?

Aldo Gabrielli, nel suo prestigioso "Dizionario Linguistico Moderno" scrive: «Et cetera, locuzione latina che vale "e le altre cose", "e il resto". Si scrive anche "et cetera", e in questa grafia la usano i Francesi, i quali l'abbreviano in "etc.".
Noi diciamo "eccetera", e abbreviamo in "ecc.". La forma abbreviata "etc." è arcaica da noi, e non è da usare. Si fa solitamente maschile ('un eccetera'), e invariabile ('gli eccetera')».
I revisori del vocabolario Gabrielli in rete contraddicono, però, il Maestro e ammettono l'uso al maschile e la forma abbreviata "etc.":
 «eccetera [ec-cè-te-ra] ant. e cetera, et cetera, etcetera
A avv.
E le altre cose, e il resto, e tutto il resto, e così via (si usa per interrompere, abbreviare un'enumerazione di cose, una citazione che non pare necessario o opportuno continuare): tutti i principi reali / e l'Altezze Imperiali, / l'Eccellenze e. (Giusti); iterat. È dottore, professore, commendatore, eccetera eccetera.
Spesso abbreviato in ecc. o etc.: tra affitto, tasse, luce, telefono ecc. ecc. mezzo stipendio se ne va
B come s.m. o f. inv.
Per sottintendere qualcosa di noto, di cui si sta parlando: togli alcuni di questi e».

Si vedano anche questi collegamenti:

http://pennablu.it/ecc/

http://www.treccani.it/vocabolario/ecc/

sabato 26 gennaio 2013

L'alternativa

“Non hai altre alternative. L’alternativa è partire o restare”. Frasi del genere si leggono spesso sui giornali e si sentono nei notiziari radiotelevisivi, ma non sono sempre corrette; vediamo, quindi, di fare un po’ di chiarezza. I grammatici raccomandano che per alternativa deve intendersi una scelta, anzi una possibilità di scelta fra due termini, non come una delle soluzioni che la scelta stessa concede. La frase, per esempio, «l’alternativa è combattere o morire» è correttissima perché abbiamo, appunto, la possibilità di scegliere di combattere o di morire. Invece nella frase «non ha altra alternativa che morire» il discorso non regge perché non c’è possibilità di scelta. Nei casi dubbi alcuni autorevolissimi grammatici consigliano di sostituire alternativa con “dilemma” (una sorta di prova del nove, insomma): se il discorso ‘fila’, cioè ha un senso, l’uso di alternativa è corretto, altrimenti no. Vediamo con qualche esempio. Nella frase su riportata, l’alternativa è combattere o morire, si può benissimo sostituire alternativa con ‘dilemma’: il dilemma è combattere o morire. L’uso di alternativa, quindi, è corretto. Nella seconda frase, sempre su riportata, non si può sostituire alternativa con dilemma e dire «non ha altro dilemma che morire»; l’uso di alternativa, per tanto, è scorretto. La stampa, come il solito, è incurante di queste “norme” e fa uso improprio, anzi scorretto di alternativa. Ma anche alcuni vocabolari non sono da meno. Lo Zingarelli (l’edizione in nostro possesso) riporta: «non avere altra alternativa»; «gli resta una sola alternativa». Sostituite alternativa con dilemma e vedrete che i conti non… tornano. Il Sandron: «la sola alternativa che ci resta è la resa»; avverte, però, che l’uso è improprio. Il linguista Aldo Gabrielli, nel suo “Si dice o non si dice?”, scrive:
«“Non ci resta ormai che questa sola alternativa: rinunciare all’affare”.
“Andare o restare? Egli esitava davanti a queste due alternative”.
“Scegli tra queste alternative: pagare, vendere o fallire”.
Ecco tre frasi come ci capita di ascoltare o pronunciare ogni giorno, tra le quali si nasconde qualche imprecisione. Vediamo di capire; poi potremo usare la parola alternativa con maggiore proprietà.
Alternativa vuol dire “possibilità di scelta tra due”; deriva infatti dal latino alter, che significa “l’uno dei due”, e non “dei tre” o “dei quattro”. Perciò la prima frase sembra sbagliata perché un’alternativa deve avere due termini di scelta: per esempio, “rinunciare all’affare o pagare di più”. Ma sbagliata non è perché qui il secondo termine è semplicemente sottinteso, e si desumerà dal resto del discorso. Sbagliata è invece la seconda frase, perché “andare o restare” rappresenta una sola alternativa e non due. Sbagliata sembra anche la terza perché i tre termini, “pagare, vendere o fallire” non possono rappresentare un’alternativa, dato che non sono una scelta “fra due”, ma “fra tre”. È però giustificabile, dato che la parola alternativa è venuta ampliando il suo significato da semplice “scelta fra due” a “scelta fra più possibilità”. Insomma, se io faccio una proposta, posso offrire più di un’alternativa (quindi delle alternative), immaginando che confronterò ciascuna delle proposte sostitutive con quella principale e avrò così una serie di alternative in senso proprio.
Resta il fatto che dov’è possibile, anche per rendere più vario il nostro linguaggio, sarà bene usare altri termini, come possibilità, soluzione, rimedio e simili.
Da notare in fine il grande successo che sta mietendo oggi l’aggettivo alternativo per indicare chi si mette, in un determinato settore d’attività, o in genere nella vita, al di fuori delle consuetudini, quasi ponendosi come un’alternativa al modello comune».
Voi, amici, regolatevi come piú vi aggrada, se siete amatori della lingua, però…
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Vocabolario Palazzi: alternativa sf. l'alternare: alternativa di timori e di speranze;  facoltà di scelta tra due cose: mi ha messo nell'alternativa di sottomettermi o di andarmene.  N. SCELTA, opzione.



venerdì 25 gennaio 2013

L'atlante

Riprendiamo il viaggio alla scoperta di parole che adoperiamo quotidianamente, senza conoscerne l'origine e, di conseguenza, il significato "intrinseco". Se qualcuno, per esempio, vi domandasse perché il libro che raccoglie le carte geografiche si chiama 'atlante', sapreste rispondere esattamente? Ecco, gentili amici lettori, una parola che è sulla bocca di tutti ma solo pochi 'addetti' la adoperano 'coscientemente', conoscendone il significato. Vediamo, dunque.
Dobbiamo tornare indietro nel tempo e rispolverare le nostre conoscenze scolastiche circa la mitologia greca. L'atlante, infatti, ha origini mitologiche. Ricorderete la storia dei Titani che osarono sfidare Giove e tentare, quindi, la scalata all'Olimpo. Il capo di questi 'ribelli' era Atlas (Atlante) al quale, naturalmente, non riuscí l'ardua impresa. Il divino Giove uccise tutti i suoi avversari, tranne Atlas al quale concesse la grazia della vita condannandolo, però, a portare sulle spalle, per l'eternità, l'intero firmamento.
Dal nome di questo gigante, curvo da millenni sotto il peso del Mondo, gli uomini ne hanno fatto, nel corso dei secoli, un uso metaforico. Sul frontespizio della prima raccolta di carte geografiche, pubblicata a Roma nel XVI secolo dallo stampatore Antonio Lafreri, spiccava infatti la figura del gigante Atlas che regge il Mondo. Ma la 'fortuna' dell'atlante si consolidò definitivamente quando, sempre nel XVI secolo, il cartografo teutonico Gerado Mercatore pubblicò le prime carte geografiche della sua raccolta, che titolò "Atlas" (Atlante). Da allora si cominciò a chiamare atlante qualunque grande opera che comprendesse tavole illustrate: atlante anatomico, atlante zoologico, atlante botanico, atlante astronomico. E si coniò anche l'aggettivo 'atlantico', cioè grande, ampio (come sono 'ampi' i fogli aperti di una carta geografica). 

giovedì 24 gennaio 2013

Intravedere: una sola "v"

Ancora una volta, nostro malgrado, dobbiamo segnalare una "inesattezza" dei revisori del vocabolario Gabrielli in rete. Al lemma "intravedere" si legge: intravedere


[in-tra-ve-dé-re] o intravvedere
(intravédo; si coniuga come vedére)
v.tr.
1 Vedere confusamente tra altre cose; distinguere appena e di sfuggita: si intravedeva tra gli alberi la casa di mia madre; la intravidi per un attimo mentre entrava in automobile.
SIN. scorgere
2 fig. Intuire, immaginare confusamente: intravedo alcune amare verità in ciò che sta accadendo.
Il Maestro, però, nel suo "Dizionario Linguistico Moderno", alla voce in questione scrive categoricamente:
«È errata la forma intravvedere».  Sempre nello stesso dizionario al lemma "intra-" scrive: «Prefisso di parola, non richiede mai il raddoppiamento della consonante che segue; si comporta cioè come
 'tra-': intramettere, intramezzare, intraprendere, intravedere (errata,  perciò la forma 'intravvedere' pur citata da alcuni dizionari), ecc. Si noti che 'intravvenire' non è eccezione, perché composto di 'intra' e 'avvenire'; come non è eccezione 'intrattenere' che è composto di 'in' e 'trattenere'».

martedì 22 gennaio 2013

Il carnevale



Cortese dr Raso,
la "importuno" ancora approfittando della sua ormai nota disponibilità. Può dirmi qualcosa sul Carnevale? Che cosa significa, come e quando è 'nato'.
Un grazie in anticipo e un caloroso ossequio.
Corrado S.
Carbonia
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Gentile Corrado, la rimando ai due collegamenti in calce.

http://faustoraso.ilcannocchiale.it/2008/01/20/il_carnevale.html

http://www.etimo.it/?term=carnevale&find=Cerca

lunedì 21 gennaio 2013

La "virgoliera"

Riproponiamo un nostro articolo pubblicato sul “Cannocchiale”, qualche anno fa, perché oggi leggendo il giornale siamo rimasti scioccati nel constatare che talune “firme” ancora fanno un uso distorto della punteggiatura.


Buona parte degli operatori dell’informazione - quelli usciti dalla scuola di oggi, in modo particolare - sono completamente all’oscuro delle leggi che regolano l’uso corretto dei segni d’interpunzione: li mettono a caso. La colpa, come dicevamo, è probabilmente della scuola che ha abdicato del tutto al suo compito primario: quello di formare, anzi di "inculcare" nei giovani la cultura della lingua. Premesso che l’uso della punteggiatura - della virgola in particolare - è affidato al buon senso e al gusto di chi scrive, vi sono delle precise norme, però, che devono essere rispettate; non si possono adoperare le virgole come se fossero del sale; racchiuderle in una "virgoliera" e poi spargerle dove capita: Pasquale, (virgola) lavorava instancabilmente. Vediamo, quindi, per sommi capi e sforzandoci di non cadere nella pedanteria, l’uso corretto della virgola nel corpo della frase e del periodo. La virgola, innanzi tutto, viene - come il solito - dal latino "virgula", diminutivo di "verga", vale a dire "bastoncino" in quanto gli amanuensi (la stampa non era stata ancora inventata) la rappresentavano con una lineetta segnata obliquamente e stava a indicare (e indica tuttora) una brevissima pausa. Questa "pausa" (la virgola) deve essere segnata obbligatoriamente (in questi casi, quindi, non c’entra il gusto di chi scrive):

a. nelle enumerazioni e negli elenchi per dividere aggettivi, nomi e avverbi indicati l’uno dopo l’altro: erano presenti tuo padre, tuo cugino Luciano, tua cognata Marta;

b. prima e dopo il vocativo: per cortesia, amici, un po’ di silenzio!

c. prima e dopo i complementi che sono spostati nell’ordine naturale della proposizione: riportò tutto, con la massima sincerità, ai suoi diretti superiori;

d. per separare le proposizioni coordinate per "asindeto" (vale a dire con una virgola, per l’appunto): entrò come una furia, ci insultò, ci picchiò, e se ne andò.

A questo proposito è giunto il momento di sfatare un "pregiudizio" - duro a morire - che alcuni insegnanti (sostenuti da "sacri testi" non degni di circolare "a piede libero" nelle scuole) inculcano nei loro allievi: prima e dopo la congiunzione "e" non si deve mettere la virgola. Costoro - e i loro accoliti - gentili amici, bestemmiano! Come bestemmiano tutti coloro che non accentano - altro "pregiudizio scolastico" - il pronome sé quando è seguito da stesso o medesimo. Ma non divaghiamo e torniamo alla congiunzione "e" che accetta o respinge la virgola a seconda dei casi. È necessario distinguere, infatti, la funzione della "e". Se questa, cioè la "e", ha valore di copula, vale a dire di congiunzione vera e propria, rifiuta categoricamente - e la cosa ci sembra ovvia - la virgola: vino, pasta e carne. Se la "e", invece, è un semplice rafforzativo ‘accetta’ la virgola in quanto quest’ultima dà alla frase una certa enfasi: e viene, e ritorna, e riparte; e tre, e quattro, e cinque! Per concludere: la congiunzione "e" non respinge la virgola "a priori".





domenica 20 gennaio 2013

Mettere la testa (o il cervello) a partito

Chi non ha mai sentito e adoperato questa locuzione che significa “cominciare a pensare e a operare concretamente, mettendo da parte idee strane o chimere”? Per l’origine e una migliore spiegazione ci affidiamo alla penna del re dei modi di dire, Ludovico Passarini.

«(La locuzione) significa far ritornare uno in sé, far sí che si ravvegga e metta senno: ed è traslato di egual misura di dire usata nei pubblici consigli, quando si mette ai voti una proposta, richiedendosi lucidezza e fermezza di mente. Usasi anche per pensare seriamente a qual partito uno deve appigliarsi, a che cosa credere. Per esempio se Tizio si trovasse in qualche spinoso intrico, e se ne lamentasse, fra gli altri modi direbbe “questo mio affare mi fa mettere il cervello a partito” (…); lo stesso modo ricorre nella “Trinuzia” del Firenzuola (…) dove un servo, narrato al giovane padrone quanto aveva spillato sul conto di una femmina, di cui si era invaghito, e di cui davagli molte speranze, il padrone gli dice: “Ma vedi un poco, volpe, se tu potessi trarre niente, che con cotesto tuo discorso, tu mi hai messo il cervello a partito (…)”».

sabato 19 gennaio 2013

Comma e capoverso

Numerose persone, anche quelle, “addette ai lavori”, fanno una confusione notevole tra il ‘capoverso’ e il ‘comma’, con la complicità di gran parte dei vocabolari, che non brillano, certo, per chiarezza. Molto spesso la confusione nasce dal fatto che – nell’uso comune – l’inizio di un capitolo, di un articolo di giornale, viene chiamato sia comma sia capoverso. Non è cosí, e i dizionari, come dicevamo, non aiutano a capire. Ecco, infatti, cosa scrivono due vocabolari “prestigiosi” (che non citiamo per carità di patria) alla voce comma: «Ciascuna delle parti in cui è suddiviso un articolo di legge, corrispondente a ciascun capoverso». Stando cosí le cose si ha l’impressione, appunto, che comma e capoverso siano l’uno sinonimo dell’altro. Nient’affatto. L’unica chiarezza viene dal vocabolario della Treccani: «Ognuna delle suddivisioni di un articolo di legge, rappresentata tipograficamente da un accapo, in modo che il primo comma corrisponde al 'principio', il secondo comma al primo 'capoverso' e così via». Vediamo, ora, cosa scrive – lo stesso dizionario – al lemma ‘capoverso’: «Parte di uno scritto o di uno stampato compresa fra un accapo e il successivo. Nelle citazioni di leggi, regolamenti, ecc. si chiamano primo, secondo, terzo capoverso e così via le suddivisioni dell’articolo corrispondenti rispettivamente al secondo, terzo, quarto comma, spettando al primo comma il nome di ‘principio’». Ed eccoci, al “dunque”, amici blogghisti. L’inizio di un articolo, erroneamente chiamato primo capoverso, si chiama, in realtà, “principio”, mentre il secondo capoverso è il… primo.


* * *


Ancora una perla dei “revisionisti” del vocabolario Gabrielli in rete.
ossequente
[os-se-quèn-te] err. ossequiente
agg. (pl. -ti)
Che porta ossequio; ubbidiente, rispettoso: giovani ossequienti ai loro maestri; essere o. alle leggi.

Fanno notare, correttamente, che il vocabolo si scrive senza l’inserimento dell’intrusa “i”; poi, negli esempi…







venerdì 18 gennaio 2013

Commuovente? Per carità: commovente!









Navigando in rete abbiamo scoperto che il sito http://grammatica-italiana.dossier.net/verbi-coniugati/0652.htm dà "commuovente" come forma corretta del participio presente del verbo commuovere. Allucinante. La sola forma corretta è senza il dittongo "uo": commovente. Nel corso della coniugazione, inoltre, toglie il dittongo dove, invece, è obbligatorio.
Per la corretta coniugazione del verbo segnaliamo alcuni siti - a nostro avviso - affidabilissimi:

http://www.italian-verbs.com/verbi-italiani/coniugazione.php?verbo=commuovere

http://garzantilinguistica.sapere.it/it/verbi/it/cerca?q=commuovere&commit=%C2%A0

http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=73268&r=29259


Lo strafalcione, purtroppo, è immortalato anche in numerose pubblicazioni. Si clicchi su: https://www.google.it/search?q=%22commuovente%22&btnG=Cerca+nei+libri&tbm=bks&tbo=1&hl=it#q=%22commuovente%22&hl=it&tbo=d&tbm=bks&psj=1&ei=VaT5UNmKJ4-K4gT8vIGgDA&start=10&sa=N&bav=on.2,or.r_gc.r_pw.r_cp.r_qf.&bvm=bv.41248874,d.bGE&fp=f7a0d2addbdf983f&biw=1024&bih=638

giovedì 17 gennaio 2013

Zàffiro? Zaffíro, prego




Le televisioni commerciali specializzate nella vendita all’asta di gioielli ci “propinano”, quotidianamente, nomi di monili la cui pronuncia non è sempre quella corretta. Abbiamo pensato, per tanto, a una “intervista impossibile” per conoscere da uno degli interessati l’esatta accentazione del nome.
Incontriamo il signor Zaffíro negli studi di una televisione privata: sta per essere venduto all’asta a un prezzo che egli non ritiene adeguato alla sua persona. Ma non è questo che lo irrita tanto quanto il fatto che la maggior parte delle persone pronunciano il suo nome in modo errato: con l’accento sulla “a” anziché sulla “i”. Ciò lo rende nervoso, appunto, e scostante ma, vista la nostra garbata insistenza, accetta di riceverci.
- Allora signor Zàffiro, pardon Zaffíro, ha fatto una ricerca particolare sul suo nome? Come mai si irrita se lo chiamano Zàffiro, con l’accento sulla “a”?
- Lei al mio posto che cosa farebbe, accetterebbe con serenità il fatto che tutti o quasi pronunciano in modo scorretto il suo nome? Non si sentirebbe offeso vedendo calpestata la sua “personalità”?
- Ci parli della sua ricerca. Perché la pronuncia corretta deve essere piana, ossia con la “i” tonica (cioè accentata)?
- Come lei certamente saprà, la maggior parte delle parole della nostra lingua sono piane; ma non è questo il ‘vero’ motivo. La mia discendenza è nobile, vengo, infatti, dalla lingua classica, dal latino “saphírus”, con tanto di “i” lunga che in italiano si deve sentire, quindi va accentata; naturalmente nella lingua parlata, non in quella scritta. Per essere estremamente chiaro aggiungerò che il latino “saphírus” non è altro che l’adattamento del greco “sàppheiros” derivato, a sua volta, dal semitico “sappir”.
- Se può esserle di consolazione sappia che altri signori, al pari di lei, vedono il proprio nome storpiato: molti dicono rùbrica e non, correttamente, rubríca; circuíto e non circuito (come, per esempio: corto circuito) anche se la forma circuíto esiste perché è il participio passato del verbo circuire.
- Appunto per questo bisogna fare attenzione a non confondere “circuíto”, participio passato, quindi con la “i” accentata, con “circuito” che significa ‘giro’, ‘percorso’, ‘contorno’: corto circuito, per l’appunto. Colgo l’occasione per segnalare la nascita di un’associazione cui possono rivolgersi tutte le parole che vedono calpestata la loro personalità. L’associazione provvederà a mettere alla gogna i colpevoli di “lesa lingua”.
- La ringraziamo per la sua gentilezza e le sue preziose delucidazioni.
- Mi consenta ancora due parole.
- Prego.
- Perché nei casi dubbi la gente non consulta un buon vocabolario?
- Parole sante; ha perfettamente ragione. Grazie di nuovo.

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http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=72&r=1522




mercoledì 16 gennaio 2013

La «ragnofobia»

Gentilissimo dott. Raso,
anche se in ritardo la ringrazio per la sua risposta al mio quesito riguardante la paura delle iniezioni (“tripanofobia” o, come ha fatto rilevare la cortese blogghista Ines Desideri, “belonefobia”). Ora ho un altro quesito da sottoporle. C’è un termine per indicare la paura o l’avversione verso gli insetti, in particolare i ragni?
Grazie in anticipo e un cordiale saluto
Corrado S.
Carbonia

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Sí, cortese amico, ci sono due termini, entrambi derivati dal greco: “entomofobia” e “aracnofobia”.

https://www.google.it/#hl=it&tbo=d&output=search&sclient=psy-ab&q=%22entomofobia%22&oq=%22entomofobia%22&gs_l=hp.3..0l3j0i30j0i10i30j0i30l2j0i10i30j0i5i30l2.676140.681437.1.685296.13.12.0.0.0.0.1188.7703.3-1j3j4j3j1.12.0...0.0...1c.1.zK-hbfoF3kM&psj=1&bav=on.2,or.r_gc.r_pw.r_cp.r_qf.&bvm=bv.41018144,d.Yms&fp=255aac1639851031&biw=1024&bih=638


https://www.google.it/#hl=it&tbo=d&sclient=psy-ab&q=aracnofobia&oq=aracnofobia&gs_l=hp.3..0l10.61985.69547.2.72375.11.10.0.0.0.0.1031.6767.3-1j1j4j3j1.10.0...0.0...1c.1.nx_aX6HdxR0&psj=1&bav=on.2,or.r_gc.r_pw.r_cp.r_qf.&bvm=bv.41018144,     



lunedì 14 gennaio 2013

Glielo o glie lo?




Un articolo di Angela Frati, della redazione consulenza linguistica della Crusca, sulla grafia univerbata o no di alcuni "pronomi accoppiati".
Si clicchi su: http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/glielo-potremmo-spiegare-cos

Personalmente preferiamo la grafia non univerbata, anche se considerata di uso prettamente letterario o raro, perché, come fa notare il linguista Amerindo Camilli, «la grafia da consigliare è glie lo, glie ne (ecc., nota del redattore) che si conforma a me lo, te ne, ecc. Glielo, gliene sono due eccezioni ingiustificate».

sabato 12 gennaio 2013

Fra Peppino o fra' Peppino?

Stupisce il constatare che molte persone, anche quelle cosí dette acculturate, mettano l’apostrofo a fra, troncamento di frate e scrivono, per esempio, fra’ Peppino. Le parole tronche, in linea generale, non si apostrofano mai. Chi metterebbe l’apostrofo in altri simili troncamenti, come “bel”, per bello, “gran”, per grande, “signor” per signore ecc.? Scriveremo correttamente, quindi, fra Giuseppe, fra Paolo, fra Cristiano. Davanti a nomi propri che cominciano con vocale non è consigliabile, però, per ragioni di ”suono”, il troncamento: frate Antonio meglio che fra Antonio; frate Evaristo meglio che fra Evaristo; frate Emiliano meglio che fra Emiliano. E per quanto attiene al plurale? La forma tronca resta invariata: è un monastero pieno di fra Giuseppi. Il troncamento di frate con l'apostrofo (fra') che, ripetiamo, è errato, lo abbiamo visto immortalato, purtroppo, in alcuni testi grammaticali. Qui segnaliamo la grammatica di Bocchiola e Gerolin. Si clicchi sul collegamento in calce e al punto 12 della voce "elisione" si potrà leggere: «Fra' Tazio».

http://books.google.it/books?id=rWibaAqN4mAC&pg=PA59&lpg=PA59&dq=%22lo+iato%22+grammatica+pratica+#v=onepage&q=%22lo%20iato%22%20grammatica%20pratica&f=false

venerdì 11 gennaio 2013

Il filo, i fili; la fila, le file

L’argomento in oggetto è stato trattato piú volte, se la memoria non ci inganna. Lo riproponiamo ancora con la speranza che faccia breccia nel “cuore linguistico” di chi ha a… cuore il buon uso della lingua italiana.


Chi di voi, gentili “navigatori”, non ha mai fatto una fila davanti a uno sportello bancario o a quello di un ufficio postale? Seguivate le file o le fila? In altre parole, cortesi amici e amatori della lingua, bisogna dire “file” o “fila”? Perché questi due plurali confondono le idee e fanno cadere in errori marchiani un po’ tutti?

Non c’è discorso in cui l’illustre oratore non inciampi nelle “fila del partito” o non inviti i suoi sostenitori a “stringere le fila” dove questo “fila” è errato. La nostra lingua, si sa, è piena di regole e sottoregole, di eccezioni e controeccezioni, ma forse è troppo ignorata anche da chi, per mestiere, non dovrebbe farlo: la stampa. Tempo fa, su un grande giornale d’informazione, abbiamo letto un “serrare le fila” che ci ha fatto strabuzzare gli occhi. Vediamo, quindi, di fare un po’ di chiarezza.

In italiano esiste un sostantivo femminile singolare “la fila”, cioè una “serie di persone o cose più o meno allineate una dietro l’altra” (la fila all’ufficio postale, per esempio), che ha un plurale “le file”. Diremo, perciò, che davanti a quel negozio – in occasione dei saldi – si sono formate lunghissime file (non “fila”) di persone, e che i militari rompono “le file”, rompono, cioè, il loro allineamento. Vi è, poi, un altro sostantivo di genere maschile, “il filo”, esattamente il prodotto di una filatura (un filo di lana, di cotone, ecc.) con due plurali, uno regolare maschile e uno irregolare femminile: i fili e le fila. Il plurale più comune e, per tanto, più adoperato è quello regolare: i banditi hanno tagliato i fili del telefono; alla signora hanno rubato quattro fili di perle; si sono sfilati tutti i fili delle calze. L’altro, quello irregolare (il femminile “le fila”), si adopera, generalmente, in senso collettivo per indicare più fili presi assieme: le fila del formaggio. Ma più spesso in senso figurato o traslato: le fila della congiura. Attenzione, quindi, amici, abbiamo “le file” del partito, dell’esercito, di un’associazione, ecc., non “le fila”.



giovedì 10 gennaio 2013

«Avere la scimmia»

Questo modo di dire – probabilmente poco conosciuto e dal “sapore” popolare –  quando nacque si riferiva alle persone ubriache fradice o, comunque, dedite all’alcol. Oggi, con il “progresso” che ha riempito il mondo di drogati, la locuzione ha subito un’evoluzione semantica passando a indicare coloro che sono sotto gli effetti degli stupefacenti tanto è vero che, attualmente, nel gergo degli addetti ai lavori si adopera quest’espressione nei confronti di coloro che sono in crisi di astinenza. Ma che cosa c’entra la scimmia? È presto detto. Nella letteratura popolare la scimmia è molto spesso associata all’idea di qualcosa di orrendo e di pericoloso e, quindi, a un qualcosa che fa perdere il controllo di sé stessi; in particolare nel caso dell’alcolismo, un tempo considerato il piú vergognoso e peggiore dei vizi. La fantasia popolare vedeva, quindi, l’alcolizzato come vittima di una scimmia che gli stava appollaiata sulle spalle e lo invitava, pressata dal proprio bisogno, a bere. Se l’ospite declinava l’invito l’animale subito si vendicava e lo faceva star male: gli graffiava il viso e gli tirava i capelli. La vendetta della scimmia, oggi, si potrebbe identificare, per l’appunto, nel gravissimo disagio di colui che si trova in crisi di astinenza. La locuzione si adopera anche nella variante “avere la scimmia sulla spalla”.

martedì 8 gennaio 2013

I Re Magi

Un interessante articolo di Matilde Paoli, della redazione consulenza linguistica dell'Accademia della Crusca. Si clicchi su:

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Le tombe dei Magi

Marco Polo afferma di aver visitato le tombe dei Magi nella città di Saba[17], a sud di Teheran, intorno al 1270: "In Persia è la città ch'è chiamata Saba, da la quale si partiro li tre re ch'andaro adorare Dio quando nacque. In quella città son soppeliti gli tre Magi in una bella sepoltura, e sonvi ancora tutti interi con barba e co' capegli: l'uno ebbe nome Beltasar, l'altro Gaspar, lo terzo Melquior. Messer Marco dimandò più volte in quella cittade di quegli III re: niuno gliene seppe dire nulla, se non che erano III re soppelliti anticamente." (Il Milione, cap. 30).

Quella di Marco Polo non è tuttavia l'unica testimonianza sul luogo di sepoltura dei Magi. Nel transetto della basilica romanica di Sant’Eustorgio a Milano si trova la “cappella dei Magi”, in cui è conservato un colossale sarcofago di pietra (vuoto), risalente al tardo Impero Romano: la tomba dei Magi. Secondo le tradizioni milanesi, la basilica sarebbe stata fatta costruire dal vescovo Eustorgio intorno all’anno 344: la volontà del vescovo era quella di esservi sepolto, dopo la sua morte, vicino ai corpi dei Magi stessi. Per questo motivo, con l’approvazione dell’imperatore Costante avrebbe fatto giungere i loro resti dalla basilica di Santa Sofia a Costantinopoli (dove erano stati portati alcuni decenni prima da sant'Elena, che li aveva ritrovati durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa).

Nel 1162 l’imperatore Federico Barbarossa fece distruggere la chiesa di Sant'Eustorgio (come pure gran parte delle mura e degli edifici pubblici di Milano) e si impossessò delle reliquie dei Magi. Nel 1164 l'arcicancelliere imperiale Rainaldo di Dassel, arcivescovo di Colonia ne sottrasse i corpi e li trasferì, attraverso Lombardia, Piemonte, Borgogna e Renania, fino al duomo della città tedesca, dove ancora oggi sono conservate in un prezioso reliquiario.

Ai milanesi rimase solo la medaglia fatta, sembra, con parte dell'oro donato dai Magi al Signore, che da allora venne esposta il giorno dell'Epifania in Sant'Eustorgio accanto al sarcofago vuoto. Negli anni successivi Milano cercò ripetutamente di riavere le reliquie, invano. Né Ludovico il Moro nel 1494, né Papa Alessandro VI, né Filippo II di Spagna, né Papa Pio IV, né Gregorio XIII, né Federico Borromeo riuscirono a far tornare le spoglie in Italia.

Solo nel ventesimo secolo Milano riuscì ad ottenere una parte di quello che le era stato tolto: il 3 gennaio del 1904,[18] infatti, il cardinal Ferrari, Arcivescovo di Milano, fece solennemente ricollocare alcuni frammenti ossei delle spoglie dei Magi (due fibule, una tibia e una vertebra), offerti dall'Arcivescovo di Colonia Fischer, in Sant'Eustorgio. Furono posti in un'urna di bronzo accanto all'antico sacello vuoto con la scritta “Sepulcrum Trium Magorum” (tomba dei tre Magi)[19].

Ancora oggi molti luoghi in Italia, Francia, Svizzera e Germania si fregiano dell'onore di avere ospitato le reliquie durante il tragitto delle spoglie dei Magi da Milano a Colonia e in molte chiese si trovano ancora frammenti lasciati in dono. La testimonianza di questo passaggio si trova anche nelle insegne di alberghi e osterie tuttora esistenti, come «Ai tre Re», «Le tre corone» e «Alla stella».

(Wikipedia)





lunedì 7 gennaio 2013

«In qualità di...»

Il linguaggio burocratico (che, ricordiamolo, “non fa la lingua”) ci ha abituati a frasi del tipo “in qualità di…”, “nella qualità di…” ecc. In molte lettere di assunzione si può, infatti, leggere: «Siamo lieti di comunicarle che dal giorno (…) Lei sarà alle dipendenze della nostra Società in qualità di…». È un’espressione, questa, da evitare se si vuole scrivere e parlare in buona lingua italiana. “Qualità”, in casi del genere, si può sostituire con “come”, “con l’incarico di”, “con il grado di” e simili: sarà assunto con l’incarico di segretario. È, altresì, da evitare – sempre che si voglia parlare e scrivere bene – l’espressione “di qualità” nel significato di “buona, ottima qualità”: è un libro di qualità; uno spettacolo di qualità. A questo proposito il linguista Rigutini – non l’illustre sconosciuto, estensore di queste noterelle – fa notare che si tratta del solito francesismo: dare un senso determinato a parole che hanno bisogno di una determinazione; una qualità può essere anche cattiva, mediocre e pessima oltre che buona. Oggi tale locuzione è largamente adoperata tanto che nell’uso comune si sente dire “stoffa di qualità” volendo significare “stoffa di buona, ottima qualità”. Gli amatori del bel parlare e del bello scrivere aborriscano da questo gallicismo. La qualità di qualcosa deve sempre essere seguita dalla sua determinazione: buona, ottima, cattiva, pessima, mediocre e via dicendo.  

PS. La locuzione "in qualità di" si trova in molte pubblicazioni, ma, come dicevamo, è meglio "starne alla larga": https://www.google.it/search?q=%22In+qualit%C3%A0+di%22&btnG=Cerca+nei+libri&tbm=bks&tbo=1&hl=it#q=%22In+qualit%C3%A0+di%22&hl=it&tbo=d&tbm=bks&psj=1&ei=8RHqUIqeDOKo4ATq-IH4BQ&start=0&sa=N&bav=on.2,or.r_gc.r_pw.r_cp.r_qf.&bvm=bv.1355534169,d.bGE&fp=e449aa0bb380d732&bpcl=40096503&biw=1024&bih=638

domenica 6 gennaio 2013

Buona befana

Gentili amici blogghisti, ecco tutto ciò che riguarda la Befana sia sotto il profilo linguistico (http://www.etimo.it/?term=befana&find=Cerca)  sia sotto il profilo leggendario: http://www.carabefana.it/pages/curiosita.html  





sabato 5 gennaio 2013

Il «per» concessivo

Il linguista Luciano Satta consiglia un uso parco del cosí detto per concessivo. «Il tipo sintattico "per" + aggettivo + verbo al congiuntivo ("Per ricco che tu sia") è assai frequente. Non diremo di condannarlo del tutto, ma è consigliabile non abusarne. Alcuni esempi. "Odiava... quel figuro, 'per biondo che fosse' (Gadda); " 'Per dura che fosse la vita' di quella gente..." (Cassola); " 'Per tremende che fossero' le verità" (Pratolini); "L'acqua, 'per profonda che sia...' " (Moravia); (...). E c'è anche l'esempio autorevole del filologo Giorgio Pasquali:
" 'Per straniera che sia' la parola..."». A nostro modestissimo avviso crediamo che coloro che amano il bel parlare e il bello scrivere... 

venerdì 4 gennaio 2013

La «tripanofobia»

Gentilissimo dott. Raso,
il suo prezioso sito mi è stato segnalato da un amico, che lo ha scoperto per caso: cercava una regoletta grammaticale non riportata nelle comuni grammatiche. Ho visto che risponde anche ai quesiti che le vengono sottoposti. Approfitto, quindi, della sua non comune cortesia per sapere se esiste un termine atto a indicare la paura delle iniezioni. Ho cercato, invano, nei vocabolari in mio possesso. Può dirmi qualcosa in merito? Grato se avrò una risposta.

Un felice 2013
Corrado S.
Carbonia

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Cortese Corrado, il termine che lei cerca, effettivamente, non esiste, per questo non è a lemma nei vocabolari. Si potrebbe creare, però, “tripanofobia”, composto con le voci greche ‘trypanon’, arnese chirurgico acuminato, e ‘-fobia’, paura, sulla scia di “agorafobia”, “claustrofobia” ecc.
PS. Il prof. Marco Grosso, moderatore del sito "Cruscate", mi fa notare che per quanto attiene alla paura degli aghi (iniezioni) si usa il termine "belenofobia". Il vocabolo non è a lemma nei comuni vocabolari, si trova, però, in alcune pubblicazioni. Si clicchi su: https://www.google.it/search?q=%22belenofobia%22&btnG=Cerca+nei+libri&tbm=bks&tbo=1&hl=it

giovedì 3 gennaio 2013

Andiamo a pusignare

State tranquilli, amici blogghisti, il verbo che avete appena letto non ha nulla di osceno anche se non molto adoperato; per taluni, forse, addirittura sconosciuto. Alcuni vocabolari lo classificano fra i termini di uso regionale, ma è attestato nel vocabolario degli Accademici della Crusca quindi – a nostro modesto avviso – di uso… nazionale. Ma cosa sta a indicare? È presto detto: “consumare un piccolo pasto dopo aver cenato”. È un cosiddetto verbo denominale perché derivato dal sostantivo “pusigno”. Questo indica un pasto leggero che si fa a tarda ora, generalmente dopo il teatro o il cinema o quando si è cenato da parecchio tempo ma si sente una certa languidezza di stomaco.


http://www.etimo.it/?cmd=id&id=13903&md=fcc354f4e5ff7a9f74c63b665f3e780b

http://www.etimo.it/?term=spuntino&find=Cerca

mercoledì 2 gennaio 2013

La burocrazia

In questi ultimi tempi si parla sempre insistentemente di snellire la burocrazia, vale a dire quella “macchina” amministrativa che regola (o dovrebbe regolare) il funzionamento dei pubblici uffici e che tanto fa impazzire il cittadino quando – suo malgrado – è costretto ad avere un ‘rapporto’ con questa benedetta o maledetta organizzazione amministrativa. Tutti, piú o meno, abbiamo avuto modo di conoscere il funzionamento di questa macchina; riteniamo di far cosa gradita ai lettori di queste noterelle, quindi, se ‘narriamo’ l’ “origine linguistica” della burocrazia dando la parola al compianto glottologo Aldo Gabrielli, uno dei padri della lingua.


«Il significato del termine è fin troppo noto; innanzi tutto esso sta a indicare il potere, spesso eccessivo, oppressivo e meticoloso della pubblica amministrazione nella condotta degli affari; poi, estensivamente, il complesso degli impiegati, degli uffici che di quella amministrazione fanno parte. È un termine nato in Francia, ‘bureaucratie’, nella prima metà del secolo XVIII, creato dall’economista Vincent de Gournay. Fu foggiato unendo la parola ‘bureau’, nel significato di ‘tavolino per scrivere’, ‘scrivania’, al suffisso “-cratie”, corrispondente all’italiano “-crazia”, derivato dal greco “kràtos”, ‘forza’: cioè il potere, o meglio il prepotere, delle scrivanie, degli uomini di tavolino. “Bureaucreatie” ricalcava il modello di parole già esistenti, come “aristocratie” e “démocratie”, ma il Gournay lo creò con intenzioni dichiaratamente dispregiative; e piú o meno spregiativa rimase anche quando la parola passò in tutte le altre lingue europee. Ma vorrei ora andare un po’ piú in là nell’esame etimologico, che riserva qualche interessante sorpresa. Quel “bureau” che forma il primo elemento della parola composta, indicava in origine una grossa e rozza stoffa di lana di color bruno che si usava soprattutto per confezionare le tonache di certi ordini religiosi; “bureau” derivava da un precedente “bure” che discendeva a sua volta dal latino popolare “bura”, ‘stoffa grossolana’. Da questo medesimo “bura”, sia detto per inciso, discende anche il nostro “buratto”, che ebbe in origine lo stesso significato di tessuto rozzo a trama larga (…) usato specialmente nella fabbricazione degli stacci per la farina (setaccio, ndr), quegli stacci che anche si dissero, per estensione, pur essi “buratti” (col verbo “burattare”, stacciare). Tornando alla stoffa della “bureau”, avvenne che presto questo robusto tessuto e di poco prezzo venisse usato per ricoprire il piano superiore dei banchi degli scrivani; e di qui il nome di “bureau” al banco stesso, al tavolino per scrivere, e con estensione anche maggiore al luogo dove si scrive, allo studio, all’ufficio».

martedì 1 gennaio 2013

Buon anno


Un sereno e proficuo 2013 a tutti gli amici blogghisti