mercoledì 29 febbraio 2012

Possesso e proprietà

Nell’uso comune “proprietà” e “possesso” vengono considerati – genericamente – sinonimi. Non è proprio cosí perché in ambito giuridico (ma a voler sottilizzare anche in quello linguistico) tra le due parole corre una sostanziale differenza. Con ‘possesso’ si intende l’esercizio di un potere sopra un bene del quale non necessariamente si deve essere titolari. La ‘proprietà’, invece, è un diritto di gran lunga piú vasto perché implica sempre che il proprietario sia anche il titolare del bene del quale ha piena padronanza, diritto che il semplice possesso non contempla.



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Menare per il naso

Chi non conosce questo modo di dire che si adopera quando si vuol prendere in giro una persona facendole credere cose non vere o improponibili oppure raggirandola e facendosi beffe di lei? L’espressione sembra derivi dai domatori girovaghi i quali erano soliti mettere al naso degli orsi un anello al quale era legata un corda che, tirata dal domatore, costringeva le povere bestie a danzare.


martedì 28 febbraio 2012

Regole fantasma

Nel foro di discussione linguistica in rete, “Cruscate” (di cui diamo il collegamento in calce), c’è un filone titolato “Regole fantasma”, regole, cioè, apprese fin dalla scuola elementare, ma che non hanno alcun fondamento, come, per esempio, il considerare errata la locuzione “ma però”. A questo proposito ci piace metterne in evidenza una, che ci sta particolarmente a cuore: «Errato l’uso di colui e di colei se non sono seguiti dal pronome relativo (colui che, colei che)». E dove sta scritto? È un uso legittimo tanto in funzione di soggetto quanto in funzione di complemento, avallato da scrittori di ieri e di oggi. Uno per tutti, il principe degli scrittori, Alessandro Manzoni: «… non ci pensiam piú a colui?» domanda donna Prassede a Lucia; il ‘colui’, forse è superfluo ricordarlo, è Renzo.


http://www.achyra.org/cruscate/viewtopic.php?t=2813


http://www.achyra.org/cruscate/viewtopic.php?t=2814&postdays=0&postorder=asc&&start=0


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Piovere a ritrecine


Forse pochi conoscono quest’espressione che significa “piovere a dirotto” in quanto è quest’ultima la piú adoperata e conosciuta. Si dice cosí, dunque, perché i massicci rovesci d’acqua sono simili a quelli sollevati e riversati dai ritrecini, cioè dalle pale curve dei vecchi mulini ad acqua. Lo stesso termine si adopera nella locuzione “andare a ritrecine”, cioè in rovina.



http://www.etimo.it/?cmd=id&id=14917&md=0c222310288f2f98dec2d6d835cca164





lunedì 27 febbraio 2012

Sequestro e rapimento

Questi due sostantivi sono considerati – dai vocabolari – l’uno sinonimo dell’altro, ma a ben vedere c’è una differenza semantica, e lo avevamo sempre sospettato. Il nostro sospetto, infatti, è confermato (e "sciolto") da quanto scrive il linguista Luciano Satta. 
«A vocabolari chiusi, noi diciamo che c’è una differenza. E chi la conosce non si meravigli della presente noterella, che noi facciamo perché la differenza viene rispettata solo di rado. Per quel che riguarda l’azione, possiamo usare indifferentemente uno dei due sostantivi, con i corrispondenti verbi: “Il rapimento (il sequestro) è avvenuto per la strada”, “La donna è stata rapita (sequestrata) per la strada”. Ma quando invece dell’azione si parla dello stato, noi distingueremmo, facendo a meno di “rapimento” e usando “sequestro”: “Il sequestro è durato un mese” e non “Il rapimento è durato un mese”. Sennò, altro che moviola. In parole povere, secondo noi ‘rapimento’ indica l’azione e basta, ‘sequestro’ può indicare sia l’azione sia lo stato».

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Pluriviria

Tra le parole da rispolverare, da mettere di nuovo a lemma nei vocabolari, vedremmo “pluriviria”, vocabolo affine a prostituta, meretrice, sgualdrina e simili, ma piú… fine.


Si veda questo collegamento:

http://www.google.it/search?tbm=bks&tbo=1&hl=it&q=%22pluriviria%22&btnG=

domenica 26 febbraio 2012

In calce...



Gentilissimo dott. Raso,
ancora una volta approfitto della sua squisita cortesia. Lei spesso scrive “si veda il collegamento in calce”, questo “in calce” – lo confesso – mi lascia perplesso perché non ne capisco l’esatto significato. Può illuminarmi in merito? Grazie in anticipo e cordialità.
Ludovico L.
Arezzo
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Cortese Ludovico, l’argomento è stato trattato qualche anno fa sul “Cannocchiale”, le do il collegamento… “in calce”.

http://faustoraso.ilcannocchiale.it/2007/06/07/ce_calce_e_calce.html


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Abbaiare alla luna

Chi non conosce questo modo di dire, forse sorpassato, che significa “ lamentarsi inutilmente, sfogarsi contro chi non si cura di reagire”? L’espressione sembra derivi da una vecchia credenza popolare, secondo la quale i cani sono irritati dalla luce della luna e cercano di allontanarla abbaiandole contro.











sabato 25 febbraio 2012

Quasi quasi...

Due parole, due, su questa… parolina (quasi) perché molte volte viene adoperata a sproposito. Il termine in oggetto, dunque, può svolgere due funzioni; può essere, cioè, sia avverbio sia congiunzione. Nella veste avverbiale indica approssimazione con il significato di “circa”, “non del tutto”, “forse”, “poco meno”, “pressappoco”, “per poco”, e locuzioni simili:  mi è costato quasi 30 euro (cioè: poco meno di 30 euro); ho quasi finito il mio turno (vale a dire: manca poco alla fine del mio turno). Spesso si ripete per dare maggior enfasi: quasi quasi (forse) mi avete convertito alla vostra causa. In funzione di congiunzione introduce una proposizione modale con il verbo tassativamente al congiuntivo e corrisponde a “come se”: dopo l’incidente provocato protestava quasi (come se) avesse ragione; si è sempre comportato quasi (come se) fosse lui il padrone. Dimenticavamo: si può usare anche in funzione di prefisso, in grafia unita al sostantivo o staccata a seconda che si tratti di termini matematici o giuridici, come fa notare il DOP, di cui diamo il collegamento in calce.

venerdì 24 febbraio 2012

«Insospettare»

Abbiamo scoperto, casualmente, che, nonostante non sia attestato nei vocabolari, esiste, o meglio esisteva,  il verbo “insospettare”. A nostro modesto avviso è di gran lunga preferibile al ‘moderno’ insospettire perché piú vicino al sostantivo dal quale deriva. Probabilmente questo verbo, fino a qualche secolo fa, apparteneva alla schiera dei verbi cosí detti sovrabbondanti (I e III coniugazione). Saremmo tentati di adoperarlo nel parlar comune, se non temessimo di essere tacciati di crassa ignoranza linguistica. Ma non è detto…
http://www.google.it/search?tbm=bks&tbo=1&hl=it&q=%22insospettare&btnG=


PS.: Dimenticavamo. Si dice insospettibile (insospettire) o insospettabile?
Perché, dunque, insospettare è stato cassato dal vocabolario?

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«Piú presto»?  Perché no?

Si veda questo collegamento: http://www.accademiadellacrusca.it/faq/faq_risp.php?id=8854&ctg_id=93


giovedì 23 febbraio 2012

L'accordo dei numerali composti con «uno»

L’argomento che trattiamo – ci sembra – non è… trattato a dovere dai cosí detti sacri testi: l’accordo dei numerali composti con “uno” (ventuno, cinquantuno ecc.). Ciò è causa di molti dubbi anche in persone non sprovvedute in fatto di lingua. Vediamo, quindi, come dobbiamo regolarci. Gli aggettivi numerali cosí composti sono invariabili se anteposti al sostantivo: ventuno quaderni, cinquantuno penne. È molto diffusa, in questo caso, la forma tronca (che noi sconsigliamo recisamente): quarantun persone, trentun bambini. Se il numerale segue, invece, il sostantivo al quale si riferisce si concorda con quest’ultimo, ma nella forma singolare: uomini quarantuno, donne cinquantuna. Possiamo benissimo dire e scrivere, per esempio: «nel mio giardino ci sono: orchidee trentuna, ciclamini quarantuno, rose settantuna».




mercoledì 22 febbraio 2012

«Interditore» o «interdittore»?



Siamo rimasti di stucco nel constatare che alcuni vocabolari, nella fattispecie il Garzanti in rete (www.garzantilinguistica.it), mettono a lemma “interditore” (con una sola “t” e non con due come prescrive la norma ortografica). Questo sostantivo, dunque, adoperato soprattutto in ambito sportivo («calciatore molto abile nel contrastare l’avversario in possesso del pallone»), viene dal latino “interdictore(m)” e passato nella lingua volgare (l’italiano) raddoppiando la consonante “t” in ottemperanza alla legge linguistica dell’assimilazione. L’assimilazione – forse è meglio ricordarlo – è un processo linguistico per cui dall’incontro di due consonanti la prima viene assorbita (assimilata) dalla seconda.

martedì 21 febbraio 2012

"Sulla morte della lingua italiana"

A proposito della morte della lingua italiana, è interessante questa discussione sorta nel sito "Cruscate" (http://www.achyra.org/): Inviato: mar, 21 feb 2012 10:25 Oggetto: ________________________________________ Marco1971 ha scritto: Il 28 marzo 2007 la Camera dei Deputati ha approvato, a larga maggioranza, la modifica dell’articolo 12 della Costituzione con l’aggiunta di un secondo comma: “L’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica nel rispetto delle garanzie previste dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali”. Il testo dovrà adesso passare all’esame del Senato. Carnby ha scritto:
Non so a che punto siano le cose... Tutto fermo, a quanto ne so io. In ogni caso, ci tengo a precisare che secondo me queste iniziative lasciano il tempo che trovano, se con «italiano» s'intende quello strano miscuglio anglomane che ci ritroviamo oggi. Insomma, o si crea un istituto di sorveglianza sulla lingua (che sia la Crusca o no, poco importa), o altrimenti è del tutto inutile fare iniziative a sostegno dell'«italiano». ----------
Condividiamo quanto scritto da Carnby.

lunedì 20 febbraio 2012

Università: la morte dell'italiano come lingua dell'istruzione




Da questo portale ci siamo sempre battuti per un uso corretto della lingua italiana e contro il dilagare degli anglismi. E continueremo a farlo nonostante il boicottaggio dell'università. Cliccate sul collegamento in calce; tenete a portata di mano, però, se amate l'idioma di Dante, un cardiotonico.

http://www.milanotoday.it/economia/politecnico-inglese-14-febbraio-2012.html

domenica 19 febbraio 2012

Nulla e niente



Forse è il caso di spendere due parole sull’uso corretto dei pronomi “nulla” e “niente” perché molto spesso non sono adoperati a dovere. Questi due pronomi singolari e invariabili quando precedono il verbo, dunque, bastano da soli a negare: nulla lo ferma davanti al pericolo; niente soddisfa la sua ambizione. Quando, invece, lo seguono richiedono la negazione “non”: non gli piace niente; non ci racconta nulla di . Cosa importantissima: nelle proposizioni interrogative acquistano valenza positiva: ti serve nulla? Cioè: ti serve qualche cosa? Altra cosa importantissima: richiedono l’apostrofo davanti ad “altro”: null’altro; nient’altro.

sabato 18 febbraio 2012

Una bella «casazione»




Siamo in pieno festival della canzone italiana, e in questo clima ci piacerebbe che si riesumasse un termine canoro: casazione. Il vocabolo indica (indicava?) un componimento musicale a quattro o piú voci, che si esegue (eseguiva?) di sera, soprattutto, e per le strade. Una sorta di serenata, insomma. E perché "casazione"? Lo scopriremo cliccando sul collegamento in calce.

http://books.google.it/books?id=MUWDw_oKcMAC&pg=PA146&dq=%22casazione%22&hl=it&sa=X&ei=JJ0_T_LbHNTU4QSr_pjGCA&ved=0CD0Q6AEwAQ#v=onepage&q=%22casazione%22&f=false

mercoledì 15 febbraio 2012

La «timidità»




Un amico è rimasto stupito e perplesso davanti al sostantivo “timidità”, adoperato da un conoscente parlando del figlio: “È un bravissimo ragazzo, affetto, però, da una timidità eccessiva”. Non si dice “timidezza”? si domandava il nostro amico. Si può dire tanto timidezza quanto timidità, quest’ultimo sostantivo, però, è di uso raro e letterario. Non tutti i vocabolari, infatti, lo attestano. È “immortalato” in numerose pubblicazioni. Si veda questo collegamento:


lunedì 13 febbraio 2012

Un «incesto linguistico»



Quanto stiamo per scrivere – siamo sicuri – farà ridere molti sedicenti linguisti: se cosí sarà la cosa ci lascerà nella piú squallida indifferenza, certi della bontà di quanto sosteniamo. Si sentono e si leggono, molto spesso, frasi tipo “Giovanna è sposata con un figlio”; “Giovanni è sposato con una figlia”. E allora? Direte. Queste frasi ci fanno pensare a un incesto, un “incesto linguistico”, potremmo dire. Sí, perché le frasi in oggetto richiamano, appunto, l’incesto: Giovanna ha sposato il figlio e Giovanni ha sposato la figlia. Questo “incesto” si può evitare con l’aggiunta di una “e”: Giovanna è sposata e con un figlio; Giovanni è sposato e con una figlia. Pedanteria? Giudicate voi, amici, amanti del bel parlare e del bello scrivere.

domenica 12 febbraio 2012

«Apodemico»






Un lettore scrive alla redazione del “Treccani” in rete:
Vi segnalo l’assenza dalla vostra (e nostra!) enciclopedia on line, della voce “apodemico”. La si può riscontrare in La comunicazione narrativa, Stefano Calabrese 2010, Bruno Mondadori, pag. 41. L’autore, rispondendo ad una mia mail, precisa che: «Si tratta di un aggettivo derivato da una parola greco-antica (apodemos), che indica l'essere in viaggio». Sarebbe utile, credo, sviluppare la trattazione del lemma. Nel ringraziarvi per il vostro preziosissimo lavoro, porgo distinti saluti.
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In effetti il New American Standard New Testament Greek Lexicon(http://www.biblestudytools.com/) registra l’aggettivo apodemos, nell’accezione di ‘fuori per viaggio, spec. all’estero, lontano dalla propria gente’. Il termine, in epoca tardo-umanistica, è stato ripreso per via libresca dal latino dei dotti (che riscoprivano i testi dell’antichità scritti in greco); a quanto pare, a ripescare apodemos è stato lo studioso tedesco Herarius Pyrksmair, nel Seicento. Si ritrova dunque nella trattatistica di viaggio del tempo, scritta perlopiù in latino.
I testi latini di scienze non “dure” venivano più facilmente volti nelle lingue romanze. Ciò accadde, per fare un esempio, con lo spagnolo primosettecentesco dell’Itinerario, o methodo apodemico de viajar, che Joaquin Marin in Valencia tradusse dal latino di Oliver Legipont, padre dell’Ordine di San Benito.
Una presenza costante negli studi legati alla trattatistica di viaggio, con esplicito riferimento alle caratteristiche ritenuti ideali per chi si accingesse a fare un viaggio all’estero, munito di opportuni diari, giunge fino ai giorni nostri e dunque senz’altro all’uso che ne fa Stefano Calabrese (insieme ad altri studiosi che affrontano il tema).
Senz’altro può essere preso in considerazione l’interesse che suscita un singolo termine, così carico, come nel caso di apodemico, di storia linguistica e di fascino semantico. Ciò non toglie che l’inclusione in un dizionario della lingua italiana (specialmente se dell’uso) o in un’enciclopedia deva essere ben meditata. Innanzi tutto, in un’enciclopedia sarebbe opportuno che entrasse un sostantivo: ciò starebbe a significare che il concetto espresso dall’aggettivo ha trovato modo e tempo di – come dire – rassodarsi e strutturarsi in una solida categoria interpretativa. In secondo luogo, osta all’inclusione nel lemmario una eccessiva specializzazione del termine in sé. Viceversa, sarebbe corretto, anzi, necessario, che apodemico venisse incluso in un eventuale lessico della terminologia legata al resoconto e racconto di viaggio. Insomma, “togliere” o “mettere”, “prendere in considerazione” o “accantonare” dipende anche dal punto di vista che si adotta.
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Il termine in oggetto si può trovare cliccando su questo collegamento:


http://www.google.it/search?tbm=bks&tbo=1&hl=it&q=%22apodemico%22&btnG=


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Dare il gongone

Ecco un altro modo di dire poco conosciuto perché relegato nella soffitta della lingua. Significa beffare, canzonare. Ludovico Passarini fa sapere che «Dare il gongone è quella beffa che si fanno fra loro i fanciulli, gonfiando le gote, e poi co’ polpastrelli delle dita raccolte, come quando si fa pepe, o col pugno chiuso battendovi sopra, e cosí le sgonfiano, accennando al fanciullo beffato».
Si vedano anche i collegamenti in calce.


http://www.dizionario.org/d/?pageurl=gongone

http://books.google.it/books?id=df0sAAAAYAAJ&pg=PA528&lpg=PA528&dq=%22dare+il+gongone%22&source=bl&ots=3i6U09gSkU&sig=0god55KpUfK6SPuLn-dgWTy6kYA&hl=it&sa=X&ei=7OU2T-a_D8KS-wbV-e2OAg&sqi=2&ved=0CDcQ6AEwBA#v=onepage&q=%22dare%20il%20gongone%22&f=false

sabato 11 febbraio 2012

Impegnare...




Riproponiamo quanto scrivemmo, tempo fa, su “il Cannocchiale”, circa il corretto uso del verbo “impegnare” perché… perché i media continuano ad adoperarlo impropriamente, se non in modo errato.

Le persone che amano scrivere e parlare correttamente, vale a dire secondo i “canoni linguistico-etimologici”, dovrebbero prestare molta attenzione – a nostro modo di vedere – sull’uso del verbo impegnare, adoperato molto spesso in modo improprio (con la “complicità” – sempre a nostro modestissimo avviso – di alcuni vocabolari permissivi). Questo verbo, dunque, composto con il prefisso “in-” e il sostantivo “pegno”, propriamente significa dare qualcosa in pegno (anche metaforicamente): il Tizio ha impegnato tutti i mobili di casa per pagare il debito; ha impegnato il suo onore (uso metaforico) in questa faccenda. Non è adoperato “molto correttamente” – come molti fanno, alla testa i mezzi di comunicazione di massa – nel significato di “attaccare battaglia” (i soldati hanno impegnato una feroce battaglia); nel significato di “prenotare un tavolo” (ho impegnato un tavolo per domani sera); nel significato di “occupare una corsia” e simili (l’automobile ha impegnato la corsia di emergenza). In tutti questi casi ci sono verbi “specifici”, basta consultare un buon vocabolario della lingua italiana.

venerdì 10 febbraio 2012

«Subire passivamente»






Ancora un consiglio del linguista Luciano Satta (e che noi seguiamo) a proposito del verbo “subire”. «La diffusione di questo verbo fa sí che esso venga usato anche a sproposito. “Subire” indica il ricevere, o il sottostare a, qualcosa di sfavorevole, avverso. Spesso si leggono invece frasi come: “La produzione ‘ha subíto’ un confortante rilancio”. Corollario: dato il significato passivo di “subire”, non si scriva “subire passivamente”, che è ridondanza».

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Dar del fieno alle oche

Questo modo di dire ha lo stesso significato
dell’altro, forse piú conosciuto, “portar vasi a
Samo”, vale a dire fare una cosa inutile, perdere
solamente del tempo che potrebbe essere impiegato
in attività redditizie. L’isola greca di Samo,
nell’Egeo, nell’antichità era famosissima per i
suoi vasi di ceramica verniciati di un rosso lucido,
i “vasa samia”, lavorati magistralmente dagli
artigiani che li esportavano in tutto il mondo
allora conosciuto. Chi portava vasi a Samo
faceva, quindi, una cosa “perfettamente inutile”.
Come coloro che danno del fieno alle oche le
quali non mangiano erbe secche: si fa presto a
darglielo, ma si butta via il tempo, tanto è vero
che l’espressione ha assunto anche il significato
di “gingillarsi”, “trastullarsi”. Giovanni Ghelardini,
nel supplemento al suo vocabolario, alla
voce in oggetto (vale a dire al motto “dar del fieno
alle oche”, ndr) spiega: “Fare cosa di nessuna
difficoltà, cose da non richiedere né ingegno né
coraggio, siccome è di fatto il dare il fieno alle
oche: e cita il solo esempio dell’Aretino in ‘Rime
Burlesche’ (3.33) - ‘ch’altro è saper dare all’oche
il fieno’. E altro è tracannar l’acqua del legno;
e altro è lo scarcare un corpo pieno’ ”. Con significato
affine le espressioni, ‘piú moderne’,
“portare acqua in mare”; “portare coccodrilli in
Egitto”; “portar frasconi a Vallombrosa” (particolarmente
in uso in Toscana, essendo un luogo
ricco di boschi); “portar pietre alla muriccia” (la
‘muriccia’ è un monte di pietre, un muro a secco
che si trova, spesso, in mezzo a un campo).


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La gravèdine

Molte persone, in questi giorni invernali, sono affette da “gravèdine”, termine, purtroppo, non attestato dalla totalità (?) dei comuni dizionari dell’uso. Ci piacerebbe, invece, che i lessicografi lo prendessero in considerazione. Ma non divaghiamo. Che cosa è, dunque, questa “gravèdine”? È un sinonimo di “coriza” (o corizza) e indica il comune raffreddore. Leggiamo dal “Treccani”: «còriza (o còrizza) s. f. [dal lat. tardo coryza, gr. κόρυζα]. –
1. In medicina, stato irritativo catarrale della mucosa nasale, prodotto da virus varî sotto l’influenza di condizioni occasionali (squilibrî di temperatura, di pressione barometrica, umidità, ecc.); corrisponde a raffreddore del linguaggio comune».

Per l'etimologia di "corizza" si clicchi su:
http://www.etimo.it/?cmd=id&id=4598&md=2e2bb4002d40a4e4c0a414cee4b43ab5

giovedì 9 febbraio 2012

La dialisi







Forse pochissime persone sanno che non c’è solo la dialisi medica, ma anche quella linguistica, di cui, purtroppo, la maggior parte dei cosí detti sacri testi non fanno menzione. Vogliamo vedere di cosa si tratta? È una figura retorica (simile all’iperbato) che consiste nell’interrompere la continuità di un periodo mediante un inciso. Viene dal greco dialyein, "separare"; separa, quindi, con un inciso le parti di un periodo. Un bell’esempio dantesco: «Parte sen giva, e io retro li andava, Lo duca…» (Inferno XXIX, 16-17). Nella retorica classica era cosí chiamato anche l’asindeto, vale a dire un costrutto senza congiunzioni.

PS.: l’iperbato – è bene ricordarlo – è la rottura dell'ordine naturale della proposizione o del periodo al fine di ottenere particolari effetti espressivi.

mercoledì 8 febbraio 2012

«Aggiungere anche»



Due parole, due, sul verbo “aggiungere” al quale molto spesso sono… aggiunte delle parole inutili. Il linguista Luciano Satta sostiene, dunque, che «è pressoché inutile “aggiungere anche”, detto di chi parla o di chi scrive, perché il solo “aggiungere” vale “dire anche”; è inutile “aggiungere poi” perché non esiste chi, parlando o scrivendo, possa “aggiungere prima”. Lo stesso vale per “quindi”, e per “inoltre”, e naturalmente per “ancora” (…)». Noi non… aggiungiamo nulla. Anzi sí, un consiglio: seguire il… consiglio dell’insigne linguista.

martedì 7 febbraio 2012

Stalattiti o ghiaccioli?




Gentile Dottor Raso,
in questi giorni di grande freddo e di abbondanti nevicate si legge sui quotidiani e si vedono immagini delle "stalattiti di ghiaccio".
Le "stalattiti", come tutti sappiamo, sono formazioni calcaree che scendono dalle grotte carsiche.
Anziché "stalattiti di ghiaccio" non sarebbe meglio chiamarli "ghiaccioli", come a me sembra corretto?
La ringrazio e La saluto cordialmente
Giovanna
Livorno
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Cortese Giovanna, sono totalmente d’accordo con lei. Il "Treccani" alla voce "ghiacciolo" scrive, infatti: «Formazione di acqua (generalmente piovana, o neve fusa) che si è ghiacciata durante il gocciolamento o la lenta effusione da piccoli fori o dai margini di una superficie, assumendo la forma di una colonnina di ghiaccio, terminante a punta arrotondata: i gh. della grondaia, del tetto, del frigorifero; essere freddo come un gh., o essere un gh., essere intirizzito dal freddo».



sabato 4 febbraio 2012

I «pellerosse»



Abbiamo letto su un quotidiano locale – che non citiamo per carità di patria – un titolo tremendamente errato: «Giovanni tra i pellerosse». Il plurale di pellerossa (o pellirossa) è “pellirosse”, per due motivi: uno di ordine storico, l’altro strettamente grammaticale. Vediamoli. Quando, nel Quattrocento, il navigatore italiano Giovanni Caboto approdò a Terranova chiamò gli abitanti di quel luogo – i Beothuc, ora scomparsi – “pelli rosse” perché usavano tingersi la pelle del viso con terra rossa. Con il trascorrere del tempo le due parole (pelli e rosse) furono scritte unite e dal plurale si “costruì” il singolare ‘pellerossa’. Il termine, quindi è nato plurale. Alcuni sostengono che talvolta si può adoperare il singolare per il plurale, sottintendendo “uomini dalla pelle rossa”; l’argomentazione, però, non ci convince molto: andremmo contro il motivo di ordine “storico-linguistico”. Non ci resta, quindi, che seguire la regola grammaticale che ci rimanda alla formazione del plurale dei nomi composti. I nomi formati da un sostantivo e da un aggettivo – ed è il caso di pellerossa (pelle, sostantivo; rossa, aggettivo) – formano il plurale mutando la desinenza di entrambi gli elementi costitutivi, vale a dire che, pur scrivendosi in un’unica parola, prendono la forma plurale sia il sostantivo (pelle) sia l’aggettivo (rossa). Da pellerossa avremo, per tanto, pellirosse; da cassaforte casseforti; da acquaforte acqueforti e via dicendo.

giovedì 2 febbraio 2012

Il cacocerdo



Gentilissimo e stimatissimo dott. Raso,
faccio di nuovo affidamento sulla sua non comune disponibilità per un altro quesito. Giorni fa mi sono imbattuto in un vocabolo veramente oscuro: cacocerdo. I dizionari a mia disposizione non ne fanno menzione, mi rivolgo, quindi, come sempre a lei. Può darmi lumi in proposito? Grazie in anticipo per la sua cortese risposta.
Cordialmente
Ludovico L.
Arezzo
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Cortese Ludovico, il vocabolo da lei citato è attestato – se non cado in errore – nel dizionario Devoto-Oli e in quello del De Mauro. È un termine decisamente arcaico e letterario e sta per “truffatore”. Il cacocerdo è una persona, quindi, che fa guadagni loschi, “cattivi”. Il sostantivo è composto con le voci greche “katós” (cattivo) e “kérdos” (guadagno). Chi si arricchisce con mezzi disonesti è, insomma, un cacocerdo. Il termine si trova, oltre che nei vocabolari sopra citati, in quello del Tommaseo-Bellini e in quello della Crusca. Veda i collegamenti in calce.


http://www.dizionario.org/d/index.php?pageurl=cacocerdo&searchfor=cacocerdo&searching=true


http://www.google.it/search?tbm=bks&tbo=1&hl=it&q=%22cacocerdo%22&btnG=

mercoledì 1 febbraio 2012

«Sénza» e «sènza»




Apprendiamo dal linguista Luciano Satta che «il glottologo Carlo Tagliavini fa una distinzione nella pronuncia di questa parola: sénza con “e” chiusa quando è in funzione di ‘proclitica’, cioè per l’accento si appoggia alla parola che segue (Sono rimasto ‘sénza soldi’, che è praticamente “senzasòldi”); sènza, con “e” aperta, quando non è proclitica e ha un accento proprio (Mandami soldi perché sono rimasto ‘sènza’). Ma, almeno in Toscana, è forte in questo caso la tendenza al suono chiuso». Per quanto riguarda l’uso dell’apostrofo con questa preposizione diamo la “parola” al DOP:
http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=12946&r=1132